NEL VENTO, TRA INFERNO E PURGATORIO

di Trifone Gargano

Il romanzo di Ilva Fabiani, Le lunghe notti di Anna Alrutz, Feltrinelli 2014, s’inserisce nel grande solco etico-narrativo, nobile e doloroso, aperto da Primo Levi con Se questo è un uomo (De Silva 1947 e poi Einaudi 1956), della testimonianza contro l’orrore nazista, qui colto nei suoi momenti germinali, nelle sue forme banalmente quotidiane, quelle della banalità del male.

I rapporti tra questo romanzo di Ilva Fabiani e il libro di Primo Levi sono tanti, e di diversa natura; innanzitutto, per il contenuto, di denuncia dell’orrore nazista; quindi, per lo stile memorialistico (anche Ilva Fabiani conduce il racconto in prima persona, pur non essendo stata testimone e vittima diretta, lo fa attraverso gli occhi e la voce di Anna Arlutz, braune Schwester, infermiera specializzata di un corpo speciale voluto da Hitler, per il piano di sterilizzazione); infine, per l’utilizzo dell’universo dantesco come sfondo etico-narrativo di riferimento. Su questo aspetto del romanzo concentrerò la mia attenzione.

Anna Alrutz è la voce narrante del romanzo; ma è una voce nel vento:

«Non ho più né un peso né un corpo. Le mie spoglie mortali sono state sepolte […] nella tomba della famiglia Alrutz […] io sono divenuta un soffio d’aria […]. Ogni tanto accade che un vento gelido mi sollevi e mi catapulti all’indietro. Dal passato riaffiorano situazioni e persone in sequenze arbitrarie, spesso senza una logica […]. Quello che mi solleva e mi fa cadere negli stralci della vita passata è un soffio più forte e maestoso di quello che sono io. Un soffio al quale opporsi è impossibile, o inutile».

Il vento che affatica Anna Alrutz (e che la tiene sospesa sul mondo, tra passato e presente) non può non rinviare a un altro vento, quello infernale, che sballottola, e che affatica le anime dei dannati, in molte zone dell’Inferno dantesco, come nel caso di Paolo e di Francesca. Quel vento impetuoso portava a Dante la voce dolente (ma ferma) di Francesca, con la stessa tonalità disperata ma decisa con cui quest’altro vento porta alle orecchie di chi legge la voce di Anna. Dante, sulla scorta di Aristotele, considerava il vento come manifestazione dello “spiritus”, cioè come forza attiva (e diffusa) del cosmo. Nella simbologia cristiana, infatti, il vento finiva per diventare la voce stessa di Dio, volontà sovraordinata alla quale la Natura doveva sottostare. Nel canto V dell’Inferno, il vento, infatti, è “bufera”, che molesta le anime dei dannati (“voltando e percotendo”).

Nel corso del romanzo della Fabiani, la voce di Anna più volte si rivolge direttamente al “vento”, per consegnargli le sue riflessioni più dolorose, le riflessioni di un’anima che, oramai, vede nitidamente l’illusione che aveva traviato lei, giovane tedesca, e tutta una nazione, quella Germania che aveva visto in Hitler “l’uomo nuovo”:

«Hitler  era l’uomo destinato a salvare la Germania […] era la guida che stavamo aspettando […] un uomo che aveva grandi piani e misure concrete, realizzabili» (pp. 57-8). Per constatare, poco dopo, che il «lupo ci raccontava esattamente quello che volevamo sentire e nel modo in cui volevamo sentirlo» (p. 101); e per aggiungere con dolente lucidità «Come raccontare al vento che mi solleva e mi butta giù che il potere del grande lupo è quello di scavare nel punto più profondo di ciascuno, quello in cui si nascondono le delusioni, le paure, le botte e l’abbandono?» (pp. 102-03).

Come si vede, qui, il vento, che agita e che sballottola la voce di Anna Alrutz, è molto simile al vento che affatica l’anima della Francesca di Dante.

Nell’Epilogo del romanzo (alle pp. 248-49), il vento e i riferimenti danteschi cambiano di ambientazione e di registro etico-narrativo. Non siamo più infatti all’Inferno (l’inferno contemporaneo, quello dell’orrore nazista), ma in un non meglio precisato Purgatorio. Il vento, infatti, ha permesso ad Anna di lasciare la clinica (degli orrori), e il bosco nel quale, adesso, ella si trova è sferzato da una pioggia purificatrice. Un senso di attesa pervade Anna, analogo a quella stessa sensazione di attesa che caratterizza l’intero Purgatorio dantesco, nel quale le anime purganti sono, tutte, in attesa di salire al paradiso celeste, dopo aver espiato le colpe, durante il (lungo) tempo di permanenza in quel secondo regno. Anche Anna dice di non sapere quanto tempo dovrà permanere in questo nuovo luogo, affermando che lo percepisce come «un altro gradino della scala», con la consapevolezza di dover affrontare «nuovi passi e ben altre prove» (p. 249).

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