di Trifone Gargano
Di calcio e letteratura tornerò a scrivere più volte, tanta (e tale) è la presenza di questo sport autenticamente popolare nella nostra vita, e, di conseguenza, nelle nostre (e nelle altrui) patrie lettere.
Il 28 gennaio, è andato in distribuzione gratuita (con un quotidiano) la bella iniziativa editoriale Il Bari delle meraviglie. La migliore squadra biancorossa di sempre, a cura di Domenico Castellaneta, la Repubblica (Roma 2021), con l’offerta di testi in forma di racconto, di omaggio, di ricordo, di passione, di tifo, firmati da giornalisti, scrittori, intellettuali, professionisti, ma, soprattutto, da tifosi, con l’intento di delineare, appunto, ruolo per ruolo, una «selezione del tutto parziale» di undici protagonisti di una ideale squadra del cuore, il Bari di tutti i tempi. Un libro, dunque, pensato e offerto ai tifosi, e alle loro famiglie; a quanti, cioè, ricordano i bei tempi in cui «l’iniziazione di un bambino era andare allo stadio», come si legge in quarta di copertina, al grido «ora e sempre, forza Bari» (p. 7). Chi conosce la storia del Bari (o della Bari, che dir si voglia), e chi ha già letto questo libro (o altri simili), sa che il Bari è squadra-ascensore, con le sue rare apparizioni nel Paradiso della serie A; il suo lungo destino da Purgatorio (serie B); e il suo (recente) Inferno (da serie C). Mi verrebbe da scrivere, in questo anno dantesco, che il Bari è proprio la squadra delle tre cantiche, come poche altre, nella storia calcistica d’Italia, ma che, presto, tornerà a «riveder le stelle».
Tra i racconti di questo libro, segnalo, come prima lettura, quello di Gianni Spinelli, Il genio dannato, dedicato alla memoria (e alle prodezze) di Giuseppe Moro (1921-1974), Bepi, portiere del Bari, nella stagione calcistica 1948-1949, e mago nel parare i calci di rigore. Spinelli lo definisce estremista, sia come portiere, capace, cioè, di grandi prodezze, ma anche di clamorose papere; sia come uomo, con una vita fatta di agi e di povertà, di miserie e di splendori, di errori e di redenzione. Insomma, una vita da romanzo.
E in effetti, annota Gianni Spinelli, con il suo stile sublime e asciutto, da grande cronista sportivo, e da raffinato narratore a tutto tondo, Bepi Moro ha ispirato un romanzo verità, a firma di Mario Pennacchia, La vita disperata del portiere Moro, Isbn 2011.
Il racconto di Spinelli, si fa mitico, nel tratteggiare le imprese di Bepi Moro, tra i pali del Bari, per quella stagione 1948-’49, con il puntiglio del cronista:
Il 3 aprile (1949), poi, decise di passare alla storia perché di fronte aveva la Juventus. Il Bari vinse 2-1 […] e Bepi mandò in delirio i giornalisti che andarono addirittura oltre la loro prosa barocca e piena di aggettivi […]. Accadde che Moro sventò un calcio di punizione di Rava [Pietro Rava fu definito «il più potente terzino del mondo», gloria della Juventus per molte stagioni, già campione olimpico nel 1936, e campione del mondo nel 1938], indirizzato nell’angolo basso, con un volo indescrivibile, uno scatto di reni da angelo […]. Impazzì il pubblico che applaudì per due minuti. Moro, a mo’ di ringraziamento, all’84’ respinse in tuffo un pallonaccio su rigore battuto dal solito Rava. Fu il trionfo. (p. 31)
Il racconto delle imprese di questo gigante dei pali continua, con il ricordo del Grande Torino, a Bari, nello stadio della Vittoria:
Nel finale di campionato, altra performance contro il Grande Torino, il 24 aprile a Bari: si oppose da solo agli attacchi dei granata, che non andarono oltre l’1-1, pochi giorni prima della tragedia di Superga. Una prova per la quale fu ritenuto degno di difendere i pali del Torino Simbolo, la selezione dei migliori calciatori italiani, nella sfida commemorativa del 26 maggio contro il River Plate.
Nella sua unica stagione al Bari, Moro riuscì a neutralizzare 5 rigori, stabilendo un record in grado di resistere per oltre 60 anni […]. (p. 31)
Nato nel 1921, a Carbonera, in provincia di Treviso, Bepi era primo di nove figli (otto maschi e una femmina), insofferente, fin da piccolo, e abituato a vivere sempre con la valigia pronta. Come calciatore, infatti, non riuscì quasi mai a restare in una società (e in una città) per più di due annate di seguito.
Come racconta con crudezza Spinelli, Moro fu pure marchiato dalla triste fama di «venditore di partite», con tanti episodi vissuti e percepiti sul filo sottilissimo dell’imputato-non-imputato:
Offerte accettate, offerte rifiutate, soldi restituiti, patti non rispettati: Moro fu marchiato ovunque e ceduto ovunque di corsa, come “appestato che appestava gli ambienti”. “Infame-sì”, “infame-no” […]. E la vita di Moro imboccò la china discendente […] soldi sperperati tra night, poker, cocaina, dolce vita, fallimento con un bar che aveva messo su a Roma, casa venduta… (p. 34).
Lavorò pure come rappresentante di dolciumi, dopo essere stato bocciato all’esame per il patentino di allenatore, a Coverciano. Tentò il suicidio. Riparò e campicchiò in Africa, per qualche tempo. Infine, a soli 53 anni, il 28 gennaio 1974, morì, in Italia, a Porto Sant’Elpidio, per un male incurabile.
Spinelli lo congeda con parole dolenti, ma anche con la citazione del ricordo, forse, del più grande portiere che l’Italia ha mai avuto, Dino Zoff, l’uomo e il campione di pochissime e misurate parole:
Quando Bepi Moro morì, nessuno del mondo calcistico si ricordò di lui, tranne Dino Zoff che inviò ai funerali la sua maglia della Nazionale: “Nella mia memoria, come in quella di tutti gli appassionati, Giuseppe Moro, resta un grande artista della porta, un vero e proprio mito” (p. 35).
Di Gianni Spinelli segnalo anche il romanzo Andiamo al Cremlino. Una storia di fantacalcio, Gelsorosso, Bari 2018 (con le illustrazioni di Valerio Pastore), sul quale, a breve, tornerò, con un’altra mia noterella, tra sport, letteratura e vita.