di Carmela Moretti
Erano considerate “non conformi”, cioè difettate, come apparecchi non perfettamente funzionanti: disabili, rom, dissidenti politiche, ma anche prostitute e lesbiche. A queste ultime toccò la sorte peggiore, perché considerate donne che valevano meno di niente, quindi esposte a ogni tipo di crudeltà. A ricordare in ogni istante il loro assoluto “non valore” era il triangolo nero cucito sulle loro divise, il marchio dei soggetti antisociali, cioè quelli senza dignità.
Furono all’incirca centotrentamila le donne internate a Ravensbruck, l’unico campo di concentramento interamente femminile del Reich, a circa 80 km a nord di Berlino. Nell’inferno voluto da quel genio del male chiamato Himmler, vennero sottoposte a ogni sorta di sopruso fisico e psicologico: lavori forzati, torture, stupri di gruppo, aborti, mutilazioni, esperimenti scientifici. In tante trovarono la morte, mentre chi sopravvisse per molto tempo non ebbe nemmeno il coraggio di testimoniare, sia per l’ineffabile orrore ancora annidato nel cuore, sia per il timore dell’accusa di essersi liberamente concesse al carnefice.
Infatti, offuscato dalle ben più note vicende di Auschwitz, Dachau e Mauthausen, di Ravensbruck si parla pochissimo. Chi furono le internate? Quali le loro storie prima della deportazione? Ancora oggi, pochi sono gli studi in merito e lacunose le informazioni.
E allora, siccome la scrittura è anche “creazione”, con la penna vogliamo provare a ridare dignità a queste donne, alle dimenticate dell’Olocausto, ricreando e completando la storia di una di esse, Elsa Krug.
Elsa era una prostituta di Düsseldorf, cittadina della regione Nordreno-Vestfalia. Non sappiamo nemmeno che volto avesse; la immaginiamo avvenente, ma di quella bellezza sofferta e ferita, che assomiglia a certi tramonti tristi sul finire dell’autunno. Venne portata a Ravensbruck per far parte del bordello destinato allo svago delle SS. È molto probabile che al suo ingresso non le avessero rasato i capelli, alle prostitute veniva concesso di tenerli lunghi. Le fu permesso di lavarsi, di indossare abiti normali, di mantenere una parvenza di femminilità. Allora, di lei e del suo corpo, le SS fecero quello che vollero, ogni giorno, ogni sera. Ciononostante, pur sperimentando su sé stessa l’orrore di cui è capace l’essere umano, Elsa non perse quel riverbero di dignità, di umanità e di solidarietà femminile, che luccica in fondo all’animo anche nella notte più buia. E quanto segue è storia, la sua storia, quel poco che è giunto sino a noi: da Kapò, Elsa accedeva ai magazzini per rubare del cibo e donarlo alle altre internate. Metteva costantemente a rischio la propria vita per soccorrerle. Trovò la morte proprio in un momento di “resistenza”: disobbedì, si ribellò, rifiutò di bastonare altre donne, che con lei condividevano quella barbarie.
Perciò, il suo destino fu inevitabile: Elsa si fece vento, passando prima da una camera a gas…
A ricordare ciò che fu Ravensbruck, sulla riva del lago di Schwedt, nel Land del Brandeburgo, c’è una scultura in bronzo, “La portatrice” di Will Lammert. Rappresenta una donna, con lo sguardo puntato verso l’orizzonte, che tiene tra le braccia un’altra donna in fin di vita.
In quella stretta, in quell’abbraccio, c’è tutto il coraggio che – nella storia di ieri come nella storia di oggi – sono capaci di dimostrare le donne per farsi scudo tra di esse e non soccombere alla crudeltà del mondo.