È, in breve, la storia dell’ingegnere Vito Alfieri Fontana e della sua voglia di redenzione. Dell’assillo morale che iniziò a turbarlo quando si rese conto che quello che aveva prodotto e venduto fino ad allora aveva ucciso delle persone. Consapevolezza che, per lui, fu l’inizio di un nuovo viaggio, al fianco delle associazioni umanitarie Emergency e Intersos, nei paesi devastati dalle guerre nei Balcani.
Una coscienza così forte da rinunciare ad una vita nel lusso
Una storia che ricorda la trama del film “Finchè c’è guerra c’è speranza”, in cui Pietro Chiocca (Alberto Sordi), commerciante di pompe idrauliche riconvertitosi a mercante di armi, si scontra moglie e figli, inorriditi dalla scoperta dell’origine del lusso in cui vive. Ma lì, in quel film del 1974, la crisi di coscienza dei protagonisti viene subito spenta, in un finale tutt’altro che lieto, dalla paura di perdere tutti quegli agi e tornare a vivere con i soli guadagni di un modesto commerciante di pompe idrauliche. La coscienza è messa a tacere dall’ipocrisia e l’unico realmente sincero diventa proprio il cinico mercante d’armi, che almeno non si trincera dietro finti scrupoli morali.
Nel caso reale di Fontana, invece, la coscienza si è dimostrate più forte. Così forte da spingerlo a rinunciare ad una vita nel lusso.
“il successore” documentario che racconta la sua redenzione
A raccontare la sua esperienza è lui stesso, nel film “Il successore”, documentario del 2015, diretto da Mattia Epifani e prodotto dall’Apulia Film Commission, che narra la sua storia.
Fontana sottolinea i diversi episodi che l’hanno profondamente segnato, portandolo alla decisione di cambiare vita. Dalle parole del figlio “sei un assassino” alle lettere di insulti recapitategli. E, soprattutto, l’incontro con i suoi contestatori, in seguito ad una “trappola” a lui tesa da don Tonino Bello, che, poco prima di morire, lo aveva invitato ad una tavola rotonda a cui avrebbero partecipato “solo in pochi”. E invece, ad attenderlo, erano in tanti.
«Possibile che lei sogni la guerra per vendere più mine antiuomo?» fu la domanda di un ragazzo che, così, innescò la profonda crisi di coscienza: «Quello che facevo era totalmente legale. Ma il dubbio che mi colse fu un altro: è giusto?».
Quella domanda rappresentò l’inizio del suo viaggio alla ricerca delle mine che, a guerra finita, continuavano ad uccidere persone innocenti. Un viaggio nato da una nuova consapevolezza. se si vuole la pace, bisogna preparare non la guerra, come dice l’antica locuzione latina di Vegezio, ma la pace stessa: «Mi sono messo in gioco, perché se vuoi la pace devi preparare la pace. Sui campi ancora pieni di mine antiuomo c’era bisogno di rimuovere pezzi di terreno alla guerra, per restituirli alla pace».
«Mi sono sentito veramente male quando, durante una delle tante operazioni di bonifica nei paesi della ex Jugoslavia, trovai una delle mie mine» ha raccontato l’ingegnere, sempre segnato da un’espressione di malinconia. Malinconia che è lui stesso a motivare alla fine del documentario, sottolineando come la felicità, per lui, sia un sentimento ormai dimenticato, soffocato dal rimorso.
La scelta di Fontana, purtroppo, rappresenta un’eccezione, un caso isolato, che raramente si ripete perché, vendendo armi, «si guadagnano troppi soldi».