“SLY”, SU NETFLIX IL DOCUFILM SU STALLONE

di Giulio Loiacono

Come da un po’ di tempo mi succede, anche questo nasce dal mio infinito navigare per podcasts, che allietano e tinteggiano le mie giornate da expat. Preferisco e ne divoro tanti, ma quelli derivanti dai radio shows sono quelli che seguo di più, per dilettarmi con la vita quotidiana della patria lontana. Uno dei due, che non nomino, solo perché cadrei nel più clamoroso dei fuoripista, mi ha segnalato che, su Netflix, andava girando il docufilm su Stallone. Chi mi legge dalla sua patria di cognome, ossia nei dintorni di Gioia del Colle, ha sentito – e subìto – del pellegrinaggio di Sly nelle Murge, con codazzo di parenti e fratello e del can can che è seguito quando i poveri gioiesi, alla sua vista – mancava da Gioia da quando non era nessuno – hanno inneggiato a “Rocky” e sono andati in visibilio quando qualcuno gli ha tradotto quel misterioso per loro, poveretti, nell’epoca dell’impero americano: “Keep pushin’!” con pugno alzato d’ordinanza. Ecco quel “NON MOLLATE!” o meglio ancora: “CONTINUATE A SPINGERE!” detto da Rocky è la quintessenza di questo prodotto di Stallone per Netflix.

Prodotto di Stallone, perché lui è il vero protagonista di se stesso e i suoi film sono se stesso e nessun altro uomo sarebbe stato capace di farli. Né Ryan O’Neil – chi? direbbe qualcuno! -, né Burt Reynolds, né Marlon Brando. Nessuno! Ma c’è un guaio. Stallone prega per i lieto fine. Sacrificherebbe tutto per un lieto fine. Gli va bene, quando rifiuta che un bullo si getti nella sconfitta e nel disonore ed inventa la sconfitta che diventa trionfo. Ancora, quando rifiuta che una macchina da guerra senza anima venga soppressa senza troppa pietà dal “suo” colonnello e cancellato come si fa di un blindato leggero spazzato via da una cluster bomb. Altre volte gli va male, come in FIST e in Taverna Paradiso, dove Rocky si traveste da qualcos’altro e deve sopravvivere a brutti film e finali di morte scontati. Ed ancora, quando, in uno dei tanti Rocky, infila il figlio, che morirà davvero, e gli vomita, ricambiato, tutto il disagio di essere padre e non aver trasmesso abbastanza il senso della vita, che è carogna e vuol tutto da te, ma che ha un lieto fine all’insegna della opportunità e della lotta. Perché lui, Sly, figlio non è mai stato.

Era figlio di una superficiale e di un delinquente, come padre, che aveva vissuto una vita per farla pagare prima ad un figlio nullità e poi ad un figlio mito. Ma anche qui, il romantico Sly ha il suo finale lieto. Quando assiste il padre morente che gli dice di essere sempre una brava persona e di far del bene, lui gli ribatte: “Brutto bastardo, mi dici così perché sta per passare “l’angelo della tua morte”? E lui gli dice: “sì…”. Ma è un sì con sguardo di perdono. È sempre così, alla ricerca del lieto fine, quando, da mercenario filantropo, carica tutti i miti da giornalino di un’epoca, da Arnold a Chuck, da Willis a Statham sino al povero Van Damme e li mette tutti dentro il progettone degli Expendebles, una specie di Altare della Patria di Hollywood, eretto per onorare il lieto fine che viene solo dal sudore, dalle lacrime e dal sangue finto. O non finto.

“Hail to Stallone!”( pr. Stallòn, senza “e”, sennò che americano sarebbe?). Hai avuto il tuo lieto fine. Ancora una volta.

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