IN HOC SIGNO VINCES: CROCE E CROCIATI DA COSTANTINO A SALVINI

a cura di Trifone Gargano

In queste ultime settimane, sui giornali e nei talk-show è stata agitata la questione del «rosario» esibito da Matteo Salvini, durante comizi e manifestazioni politiche, suscitando un certo dibattito, pro e contro, come sempre accade. L’uso (e l’abuso) dei simboli religiosi, e, segnatamente, di quelli cristiani, non è, purtroppo, cosa nuova. Qui, mi limito a fornire al lettore soltanto alcuni esempi di tale utilizzo (tra i più noti, e clamorosi).

Cominciò, già nel III secolo, l’imperatore Costantino, che fece della croce il suo vessillo (vincente), facendo circolare il racconto di una sua visione notturna, in sogno, della scritta (oggi, diremmo del twitt): «In hoc signo vinces» [sotto questo segno vincerai]. Il fatto prodigioso sarebbe avvenuto alla vigilia della battaglia di Ponte Milvio, il 28 ottobre 1312, tra Costantino e Massenzio, che vide, grazie all’impiego del santo segno della croce, Costantino vincente.

 

Pochi sanno, comunque, che l’imperatore Costantino non si battezzò mai, durante tutta la sua vita. Formalmente, non battezzandosi, di fatto, egli non entrò mai nella comunità cristiana. Si limitò, da fine politico, a utilizzarne / sfruttarne i simboli, per consolidare la sua egemonia politica, in una Roma oramai vacillante, ma che, grazie al cristianesimo, prese a percorrere una nuova strada.

Il complesso fenomeno dei Crociati, miles Christi, è noto a tutti. Esso si sviluppò, in modo particolare, tra IX e XI secolo, in Europa, in concomitanza con la dissolvenza del potere imperiale carolingio. La Chiesa romana (e cattolica) riuscì a incanalare tutta quella violenza al di fuori dello spazio geografico (e religioso) europeo, verso Oriente, a danno dei musulmani. Fu papa Gregorio VII che elaborò il concetto di Miles sancti Petri (Soldato di san Pietro, cioè, Soldato della Chiesa di Roma). Le così dette “guerre sante”, dunque, furono combattute da soldati che impugnarono le armi al servizio della Chiesa di Roma. Il simbolo che campeggiava sull’armatura e sulle insegne di questi soldati era, appunto, la croce cristiana.

Analoga operazione avvenne con la vicenda di Giovanna d’Arco, eroina nazionale francese, che la Chiesa, ancora oggi, venera come santa, la quale utilizzò i simboli cristiani per risollevare, a favore della Francia, le sorti della guerra dei cent’anni, contro gli inglesi. Nel 1431, catturata, fu sottoposta a processo per eresia, e fu condannata al rogo. La Chiesa di Roma, secoli dopo, dichiarò nullo il processo e la relativa condanna per eresia, proclamandola beata, nel 1909, e poi santa, nel 1920, come patrona di Francia.

Una ulteriore tappa di questo cammino storico che sto tracciando (in modo sommario) dell’uso (e dell’abuso) dei simboli cristiani da parte della politica, è segnata da Enrico di Navarra, e dal suo celeberrimo motto «Parigi val bene una messa». Enrico IV di Borbone, conosciuto anche come Enrico il Grande, infatti, divenne re di Francia dopo aver abiurato il calvinismo (nel 1594), non certamente per sincera adesione alla fede cattolica.

 

Nel Novecento, suona ancora sinistro il ricordo del motto «Gott mit uns» [Dio con noi], che i soldati nazisti portavano impresso sulla fibbia del cinturone della loro divisa. In origine era stato il motto dell’Ordine Teutonico (antico Ordine monastico militare, sorto in Terrasanta).

 

 

 

 

 

 

L’Italia repubblicana, nata dalla lotta di liberazione contro il nazi-fascismo, vedrà per decenni il predominio della Democrazia Cristiana, come partito di maggioranza relativa, che, a partire già dal nome e quindi dal suo simbolo (lo scudo crociato), evocherà immediatamente, nella mente e nel cuore degli elettori italiani, suggestioni e richiami diretti alla fede cattolica.

 

Tutte le campagne elettorali dei primi anni del secondo dopoguerra italiano, del resto, furono caratterizzate da manifesti, volantini e slogan che inneggiavano alla “famiglia cristiana”, ai valori della patria, della libertà e della famiglia, da difendere, evidentemente, contro il pericolo “rosso” (il pericolo comunista). Per decenni, la Democrazia Cristiana, nel bene e nel male, sarà il partito perno della Repubblica italiana; talvolta, perfino identificandosi con lo Stato stesso (perlomeno, nel comune sentire degli strati popolari). Pezzi notevoli di apparato ecclesiastico, organizzazioni ecclesiali di livello nazionale, sindacati, corporazioni, e gruppi vari, non fecero mai mistero del loro diretto appoggio culturale e elettorale al partito della Democrazia Cristiana. Solo verso la fine degli anni Ottanta del Novecento, con la crisi economica e morale oramai dilagante, e con le prime crepe che l’inchiesta Mani Pulite stava mettendo a nudo nella vita politica della così detta Prima Repubblica italiana, intellettuali acuti, come, per esempio, il padre gesuita Bartolomeo Sorge, faticheranno non poco a far passare l’idea che la DC non fosse “il” partito “dei” cattolici italiani; ma che, al contrario, e molto più semplicemente, fosse soltanto “un” partito “di” cattolici. Aprendo, in tal modo, alla così detta rottura dell’unità politica (e partitica) dei cattolici italiani, e, quindi, di fatto, riducendo sensibilmente, l’utilizzo diretto (e improprio) di simboli, riferimenti, frasi e immaginario religioso nella lotta politica.

Il rosario di Salvini, allora, oggi, è soltanto l’ultimo esempio, in termini meramente cronologici, di questo lunghissimo cammino (a volte nefasto, altre volte semplicemente “pratico”, di mero calcolo di convenienza) dell’uso (e dell’abuso) della croce cristiana da parte di singoli leader, o di interi gruppi politici.

E la Chiesa cosa fa? Dinanzi a tutto ciò, la Chiesa ufficiale cosa fa? Sorniona, come le stelle di Cronin, dà l’impressione di restare …a guardare. Certo, s’indigna, protesta, ma, sostanzialmente, resta alla finestra. Guarda, e si lascia usare. In fin dei conti, anche con quest’ultima vicenda del rosario esibito da Salvini, la Chiesa può ben annoverare, tra i tanti della sua Storia millenaria, un altro successo: un “grande” della terra, infatti, si è inchinato al “disonor del Golgota”. In questo caso specifico, colui che si è inchinato è passato, con una formidabile giravolta, dalle liturgie celtiche, e dall’ampolla con l’acqua sacra del dio Po, alla Croce e al Rosario.

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