di Carmela Moretti
E finalmente il grande giorno è arrivato.
Maggio è stato un mese difficile, lungo, trascorso sotto una pioggia incessante nell’ansiosa attesa di domenica 26.
Quale scenario si configurerà in Europa? I sovranisti avranno la meglio? E il matrimonio Lega-Cinque stelle avvierà le pratiche di un divorzio turbolento?
Impensieriti da questi interrogativi, ne abbiamo viste di tutti i colori. Abbiamo sfogliato giornali, ascoltato slogan imbarazzanti, assistito a politici impegnati a sgranare il rosario. Qualcuno di noi si è documentato a dovere prima di apporre la propria fondamentale croce, qualcun altro ha preferito farsi condizionare dagli umori della propria pancia: il tutto in attesa che il grande giorno arrivasse.
E finalmente è lunedì 27, possiamo tornare a respirare e, a dir la verità, quasi ci sentiamo risollevati per aver superato questa tappa, nonostante gli esiti possano piacere o meno.
Già, perché almeno ora il quadro è chiaro e certi giochi sono usciti allo scoperto: l’Europa è ferita, ma non morirà, più preoccupante si fa invece lo scenario dell’Italia.
Nel Parlamento europeo cambia poco, perché si conferma ancora una volta una maggioranza di socialisti, popolari e liberali, a cui probabilmente si aggiungerà una forza nuova e giovane, i Verdi. Aumenta, però, la presenza dei sovranisti, ideologia contro cui si dovrà lavorare se si vorrà conservare (e magari migliorare) il sogno europeo.
Più preoccupante diventa la realtà di certi Stati. In Francia è stato il boom di Le Pen, quindi possiamo dire a voce alta quella che sembrava fino a ieri una mezza verità: i gilet gialli non sono certamente tutti di sinistra, sono soltanto contro Macron.
Il povero Belgio esce da queste elezioni diviso in due: i fiamminghi si sono affidati all’estrema destra, che fa della secessione del paese il suo vessillo; la Vallonia riconferma la fiducia ai socialisti e fa avanzare di molto gli ecologisti. Nel mezzo, ci sono i partiti centristi, che hanno stipulato un patto chiamato «cordone sanitario», giurando di non governare mai con il partito di estrema destra. Un caos cosmico, insomma.
E veniamo all’Italia. Salvini festeggia il suo abbastanza scontato 34 %, Di Maio attribuisce la sua débâcle alla scarsa affluenza alle urne, il PD di Zingaretti finalmente si sente ringalluzzito per essere stata la seconda forza politica e forse si rimetterà al lavoro. Quindi, emerge con chiarezza quanto temevamo già: da domani di vicepremier ce ne sarà uno soltanto, che forte del 34 % registrato alle europee (a breve sapremo anche l’esito di regionali e comunali) porterà avanti il suo programma; il PD proverà a contrastarlo, si spera con argomenti forti e convincenti; il Movimento Cinque Stelle dovrà fare mea culpa e prendere la rincorsa per stare al passo.
Nulla di così sconvolgente, insomma. Qualcosa era stata largamente prevista già da tempo, qualcos’altro ci ha fatto appena appena sobbalzare un po’.
C’è, invece, qualcosa di più preoccupante in questa tornata elettorale e che è venuta fuori pochissimo.
Sapete che ci sono comuni – soprattutto quelli più piccoli, ma non solo – in cui ieri i cittadini sono stati chiamati a scegliere tra un solo candidato sindaco o il commissariamento? Già, proprio così, molti votanti non hanno avuto nemmeno un candidato che fosse espressione della propria forza politica, così hanno dovuto recarsi alle urne per far raggiungere il quorum ed evitare di affidare il proprio Paese a un commissario straordinario non eletto.
Pare che nessuno voglia fare più il sindaco e impegnarsi per il proprio territorio. Non conviene più, troppe rogne, troppi cavilli, la politica è soltanto una rottura di balle.
È la morte della partecipazione civica nelle piccole realtà il vero problema da affrontare da domani, anzi da oggi. Perché è una morte lenta, silenziosa, che sta avvenendo all’ombra dei clamori della grande politica.