di Gabriele Colella
In questo intervento tratterò le epistole della raccolta Heroides in cui il lectus assume, per le mogli che ne evocano l’immagine, un significato traslato: nel riferirsi al giaciglio matrimoniale, le coniuges alludono al loro matrimonio, pericolosamente in bilico data l’assenza dell’uomo amato. Sono le lettere scritte da Ermione (her. 8), da Deianira (her. 9), da Medea (her. 12) e da Ipsipile (her. 6). Dunque, Procediamo.
Si consideri, anzitutto, il caso della ottava epistola:
Sic quoque eram repetenda tamen, nec turpe, nec turpe marito
Aspera pro caro bella tulisse toro. (her. 8, 25-26)
Il distico è tratto dalla sezione iniziale della lettera in cui la coniunx ricorre a diversi espedienti per esortare il ritorno del marito. Al verso 24 lo richiama a piena voce: ipse veni! Ermione, nei versi menzionati, ammette che con la stessa risolutezza il marito avrebbe dovuto reclamarne la restituzione: non è turpe – spiega in effetti la donna – che lo sposo sostenga aspre battaglie per ricongiungersi all’amata lontana. Il riferimento, in questo caso, sembra essere all’epistola tredicesima: chi combatte perché animato dal desiderio di ricongiungersi alla moglie è Protesilao (her. 13, vv. 77-78 Causa tua est dispar: tu tantum vivere pugna, / inque pios dominae posse redire sinus!). Quella dei versi menzionati costituisce, al di là del rimando innegabile a her. 13 (dimostrazione dell’uniformità tematica della raccolta ovidiana), uno degli innumerevoli tentavi della coniunx di ricorrere all’esempio della vicenda dei genitori per richiamare a sé il marito. In questo senso, non è stato turpe, nell’ottica di Ermione, che Menelao muovesse guerra ai Troiani per riconquistare Elena rapita e, quindi, il proprio torus. Il termine non può non essere interpretato come “unione coniugale”. È per riconquistare la propria relazione matrimoniale che Menelao ha scatenato la guerra di Troia; per lo stesso obiettivo Oreste deve – o almeno così si augura sua moglie – intervenire. Certo non si tratta di riconquistare un torus, un letto qualsiasi. Ma anzi la scrivente sta chiaramente riferendosi al letto nuziale, e, in senso lato, al proprio matrimonio.
In her. 9, il seguente distico è significativo a proposito dell’immagine del letto nuziale:
Deprecor hoc unum per iura sacerrima lecti,
ne videar fatis insidiata tuis. (her. 9, 159-160)
La lettera volge al termine. Consapevole ormai che il marito è morto per mano sua, (vv. 143-144 … Scribenti nuntia venit / fama, virum tunicae tabe perire meae), prima di suicidarsi, Deianira giura ad Ercole di non aver volontariamente attentato alla sua vita. Lo scongiura per iura sacerrima lecti, per i sacri diritti del matrimonio che i coniugi sono chiamati ad osservare. Deianira si augura che gli iura (sono esattamente quei conubialia iura che Ipsipile, in her. 6, 41 rinfaccia al marito di aver calpestato) imposti dalla unione nuziale con Ercole, siano sigillo, garanzia dell’attendibilità delle sue parole.
Sembra, d’altronde, che questi stessi diritti, il matrimonio e quanto esso comporta (o forse il tempo perduto sposando un’infedele) Medea voglia far valere nei confronti del tradimento del marito:
Redde torum, pro quo tot res insana reliqui (her. 12, 193)
Nella parte conclusiva dell’epistola, Medea ricorrendo a parole più umili del suo animo orgoglioso (v. 184 nunc animis audi verba minora meis!), cerca di far breccia nel cuore di ferro (v. 183 praecordia ferrea) del marito infedele. Lo scongiura così, in virtù del sostegno che gli ha fornito, del loro figlio in comune, di ridarle il matrimonio che tanto le è costato (Redde torum). Non è certo il torus, il letto sui cui, tra le braccia di Giasone, riposava, che Medea reclama a viso aperto, ma il suo matrimonio, la sua unione coniugale con il marito tanto crudele. Medea chiede a Giasone di restituirle la fedeltà che gli ha dimostrato, l’aiuto che gli ha fornito in occasione del recupero del vello d’oro. Alla base delle richieste della coniunx risiede il pentimento: Medea, pentitasi della propria benevolenza, vuole indietro quello che un marito infedele non ha meritato. Per quanto riguarda la terminologia occorre sottolineare che tanto lectus quanto torus possono allora assumere una valenza metaforica (a ulteriore conferma della loro sinonimia). Inoltre, è degno di nota insana, che Medea riferisce a sé stessa. Invece di concepire l’amore come malattia, un vulnus che renda saucia chi ne patisca gli effetti (her. 12, 57), si tratta, in questo caso, da parte della stessa Medea, di considerare il sentimento che la lega a Giasone alla stregua della pazzia, che fa dell’innamorata un’ insana. È stato per il suo matrimonio (v. 193 pro toro) che Medea, come accecata da una sorta di dementia, ha abbandonato la patria, il genitore, la vita che conduceva prima di incontrare il marito.
Per quel che riguarda la sesta Eroide, sembra che l’immagine del letto sia indissolubilmente legata all’amante di Giasone, Medea. Ciò non sorprende se si considera che nella sesta epistola, la coniunx non è in grado di liberarsi dal pensiero della rivale che la tormenta. La maga della Colchide si insinua in ogni riflessione di Ipsipile: che si tratti di immaginare il ritorno del marito o che si tratti di pensare il marito in un letto, Ipsipile non può fare a meno di pensare Giasone in compagnia di Medea. L’immagine del letto, in her. 6, è, in questa accezione, assai ricorrente, molto di più di quanto accade nelle altre lettere di eroine. Non resta che passare a rassegna le ricorrenze dell’immagine.
Barbara narratur venisse venefica tecum,
in mihi promissi parte recepta tori. (her. 6, 19-20)
Rispetto ai versi precedenti, il distico citato rappresenta il primo di una lunga serie di sezioni, all’interno della lettera, in cui Ipsipile appare ossessionata da Medea. È significativo che la prima volta in cui questo accade, Ipsipile faccia riferimento alla possibilità che l’amante giaccia con Giasone in un solo letto e la immagini nel suo rapportarsi sessualmente e fisicamente all’Esonide. La gelosia della coniunx risalta in tutta la sua amarezza: Ipsipile sospetta che la sua rivale possa giacere nel letto con il marito proprio in quel lato del giaciglio a lei promesso in quanto coniunx. È il posto accanto a Giasone (la pars tori del v. 20) che Ipsipile reclama e non tollera che venga occupato da altri.
Si consideri la seconda occorrenza:
Et quae nescierim melius : male quaeritur herbis
Moribus et forma conciliandus amor.
Hanc potes amplecti thalamoque relictus in uno
impavidus somno nocte silente frui? (her. 6, 93-96)
Nella sezione centrale dell’epistola, Ipsipile scatena le sue invettive contro Medea. Soprattutto, a partire dal v. 83, la coniunx si cimenta in un’attenta descrizione della rivale con l’augurio di metterne in risalto i difetti più riprovevoli. Evidenziatane la natura barbara, Ipsipile si chiede perplessa come il marito, cieco di fronte a cotanta barbarie, possa con lei giacere nello stesso letto, possa abbracciare, impavidus, in un unico giaciglio, la maga della Colchide.
Si osservi la terza occorrenza del motivo:
Hanc tamen, o demens Colchisque ablate venenis,
diceris Hypsipyles praeposuisse toro. (her. 6, 131-132)
Nei versi precedenti, Ipsipile spiega di essere stata in procinto di inviare presso Giasone i suoi figli in qualità di ambasciatori per la madre, ma di esser stata frenata dal timore che la matrigna Medea potesse inveire anche contro di loro. Ribaditane così, ancora una volta, la natura barbara e la malvagità, Ipsipile torna a chiedersi, esterrefatta, come il marito possa aver preferito Medea a lei. Soprattutto i verbi diceris e praeposuisse hanno fatto discutere: da un lato il verbo dicere in diatesi passiva sembrerebbe celare il rifiuto di Ipsipile di credere (o, ancor meglio, il suo desiderio di non credere), che Giasone possa averle preferito Medea; dall’altro è degno di nota il fatto che Ipsipile torni a riflettere, adoperando il verbo praeponere, come già ai versi 19-20, sulla possibilità che il marito abbia preposto Medea al loro matrimonio (v. 132 toro, con inequivocabile accezione metaforica). Inoltre, merita attenzione demens : la dementia di Giasone è l’effetto dei veleni con cui la maga della Colchide lo seduce. Demens sembra d’altronde richiamare insana di her. 12, 193. Nel caso dell’eroina della dodicesima Eroide, tuttavia, è l’amor serbato nei confronti di Giasone ad averne determinato la pazzia che l’ha spinta ad abbandonare il suo passato per il suo matrimonio con l’Argonauta (her. 6, 193 Redde torum, pro quo tot res insana reliqui).
Si consideri, ora, la quarta occorrenza:
Quod gemit Hypsipile, lecti quoque subnuba nostri
maereat et leges sentiat ipsa suas; (her. 6, 153-154)
Il distico è tratto dalla sezione finale dell’epistola. Nella chiusa della lettera l’eroina inveisce contro la rivale più di quanto non abbia fatto nel corso di tutta la compilazione. Ipsipile, volendo ricambiare a Medea, con la stessa moneta (v. 151 Medeae Medea forem! …), il dolore cui è stata costretta per colpa sua, augura all’usurpatrice del suo letto di patire ciò che è costretta a patire lei e di esperire le sue stesse leggi. È interessante notare la contrapposizione dettata dalla contiguità di subnuba e nostri, riferito a lecti. Medea ha profanato il letto nuziale di Giasone e Ipsipile e, con esso, il loro matrimonio.
Può essere evidenziata, in her. 6, un’ultima – nonché, forse, più significativa – occorrenza del motivo del ‘letto nuziale’:
Vivite devoto nuptaque virque toro! (her. 6, 164)
Si tratta del verso finale dell’epistola. Il rancore che serba Ipsipile nei confronti di Medea e del marito arriva al culmine. In corrispondenza del finale della lettera, la rabbia di Ipsipile è indirizzata sia contro Medea che contro Giasone. La regina di Lemno scaglia la maledizione su entrambi: possa essere maledetto il letto in cui i novelli sposi giacciono assieme: che possano Giasone e la novella sposa vivere in un letto maledetto.