di Francesco Monteleone
Arriviamo che i fotografi sono agitati. Sicuramente non hanno subìto una misteriosa presenza trascendente; ci deve essere qualcuno che ha la gloria sui rotocalchi. Infatti è così. Marco D’Amore è stato calato dal firmamento di Gomorra, il seguitissimo serial nel quale gli uomini onesti della Campania e dintorni sono fuscelli nelle mani dei criminali.
L’ospite incarna magistralmente le nostre paure, lo si vede da quanta gente gli corre dietro e dai produttori americani che bussano alla sua porta. È diventato molto famoso, ma molti suoi fan non conoscono nemmeno il suo nome: “E io sono contento, perché il mio desiderio è scomparire, quindi mi va bene se mi chiamano Ciro e non Marco”. Negli ultimi tempi si è regalato la regia cinematografica; il Bifest, apprezzandone l’originalità, gli ha consegnato il prestigioso premio dedicato a Ettore Scola. “L’Immortale è un film che ho sognato per anni” – dichiara al critico (nel senso di ‘giornalista’) David Grieco e per consolarci – “questa città mi ha sempre accolto benevolmente con i miei lavori. Bari assomiglia a Napoli. È una terra meravigliosa e miserabile come la mia”.
Poi aumenta il pathos, quando si sente dire che i suoi virtuosismi ricordano Sergio Leone; lui si commuove (e anche noi piangiamo). “C’era una volta in America fu il primo film che mio padre mi fece vedere da bambino; ero seduto sul tavolo e non arrivai alla fine, ma crescendo l’ho rivisto più volte”. Alla fine ci risulta chiaro che, in abiti civili, l’artista non assomiglia per niente a Ciro (che non è certamente di Brandeburgo) perché riesce a sintetizzare intelligentemente tutta la tenerezza, la spiritualità, l’humor del maestro assoluto dei western all’italiana. (e se volete conoscere con precisione il suo intervento richiedete le registrazioni fatte dal service audio-video del Festival)
Bellocchio parla in collegamento dal salotto di casa sua; conserva sempre la stessa socratica modestia, nonostante con Buscetta ha fatto una quaterna secca su tutte le ruote del mercato. Quando Enrico Magrelli (che la moglie metterà a dieta appena Laudadio glielo riconsegna) dice con la sua profetica sagacia “C’è un storia invisibile del cinema”, Marco Bellocchio svela ai fortunati e rinfrescati spettatori dell’arena Prefettura un congruo numero di retroscena del riuscitissimo “Traditore”.
Ina Weisse è una regista (e non solo) di estrema bellezza berlinese, circondata da una frequenza elettro-magnetica non identificata (le foto del cellulare sono venute tutte sfuocate, con i fari accesi e con i fari spenti). A Bari la sua diversità ha una forza simbolica deliziosa, intima, musicale. Svela qualcosa, in tedesco, del suo film “Das Vorspiel” nominato in Italia “L’audizione”, ma la vera attrazione è la traduttrice che in piedi, con un quadernino tenuto su una mano, riesce a tradurre tutto, ma proprio tutto, il lessico e l’arco delle emozioni umane.
Ina ha suonato il violino per 13 anni e conosce bene quanta fatica serve a diventare un ottimo esecutore di Bach. Infatti, la musica è stata il punto di partenza per questo film, di buon livello; esso narra le vicende di una maestra di violino, con una vita privata sconnessa, la quale incontra un allievo talentuoso e vorrebbe migliorarlo…
“L’educazione dei bambini è l’anello debole della società” è il messaggio morale che Frau Weisse ci consegna in controtendenza a tanta forza ritmica; e noi filosofi, pedagoghi, maestri precari, supplenti, insegnanti di sostegno, votanti la ministra Azzolina, in Europa non ci sentiamo più soli e abbandonati.