SE NE VA IL REGISTA GIULIANO MONTALDO. AL FESTIVAL DEL CINEMA DI BARI ERA COME UNO DI FAMIGLIA

di Carmela Moretti

La fortuna e l’enorme privilegio di aver potuto essere a contatto con i giganti del cinema italiano del Novecento forse comincio a realizzarla di fatto adesso, che non ci sono più. Dopo Ettore Scola, Ugo Gregoretti, Andrea Camilleri, con il regista Giuliano Montaldo, che ci ha lasciato oggi, si chiude il cerchio.

Ciò che Montaldo ha dato al mondo sul piano artistico e culturale è sotto gli occhi di tutti. I film “Sacco e Vanzetti”, “Giordano Bruno, “L’Agnese va a morire” sono dei capolavori assoluti della cinematografia, espressione di un cinema di qualità che, lontano dal considerarsi puro godimento, si era dato l’obiettivo di educare le menti e le sensibilità degli spettatori. D’altra parte, egli stesso dichiarò in un’intervista che per combattere la rabbia, l’intolleranza e l’ignoranza che si sentono nella società di oggi, non c’è altra strada che sapere e studiare; in una sola parola, unica via è la cultura, che deve essere veicolata anche da tutte le forme artistiche, in primis la settima arte.

Che cosa ha, invece, lasciato a me personalmente, in quei pomeriggi trascorsi con lui e sua moglie Vera, per sei anni, quando ero hostess al Festival del Cinema di Bari?

Innanzitutto un’idea molto chiara di eleganza. Oltre al suo talento e all’ impegno civico dei suoi film, ciò che rendeva Montaldo particolarmente amato nell’ambiente cinematografico credo fosse la sua signorilità. Lo guardavo e pensavo che troneggiasse rispetto ad alcuni esponenti della nuova generazione di registi e di attori, che ho visto arrivare al festival con fare o sciatto o dozzinale o, peggio ancora, supponente nei riguardi di chiunque si avvicinasse a loro.

Mi ha anche lasciato l’insegnamento che si può essere bambini persino a novant’anni e che i veri “monumenti” sono vestiti di umiltà. Giuliano Montaldo giocava sempre. E scherzava. E ci prendeva in giro. E ci raccontava barzellette. Per poi tornare immediatamente serio, professionale, impeccabile quando si trattava di rimettersi a lavoro e di tornare a parlare di cinema, del festival in questione, delle premiazioni.

Un ricordo su tutti. In un momento di pausa, vedendolo in compagnia di sua moglie Vera, curati, innamoratissimi nonostante l’età già avanzata e una lunga unione alle spalle, gli chiesi quale fosse il segreto di un amore di tale specie. Mi rispose così: “Giocare. Noi giochiamo tanto. Cercati qualcuno con cui puoi farlo per tutta la vita”. Chiamava Vera “la mia ragazza”, come se si fossero conosciuti soltanto il giorno avanti.

Insomma, con Giuliano se ne va un regista impegnato, antifascista, che ha voluto con la sua arte mettere in luce le distorsioni dei poteri (politico, giudiziario, religioso) a danno dei più deboli. Un regista purtroppo non sempre capito durante tutta la sua carriera, come d’altronde accade spesso ai grandi.

Per chi lo ha conosciuto di persona, se ne va anche un nonno. Un nonno, che con gli occhi luccicanti di un bambino aveva molta vita da insegnare a tutti.

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