NINO MOTTA, LA PARRUCCHIERA DI PIZZUTA

a cura Trifone Gargano

 Rosa Lentini ha quasi cinquant’anni (ma ne dimostra molti di meno, con il suo fisico asciutto e ancora seducente), è filologa, con specializzazione su Petrarca (nota, negli ambienti accademici per aver curato l’edizione critica delle carte petrarchesche del così detto Codice degli Abbozzi). Rosa ha un’ossessione, da anni: far luce su di un fatto di sangue avvenuto nel lontano 1956, nella sua Pizzuta, ben più di cinquant’anni prima, dunque, e sul quale era subito sceso un inspiegabile silenzio, che durava ancora, nonostante i decenni trascorsi. Rosa ricorda una memorabile sfuriata di suo padre, con urla, divieti e fogli di giornale buttati per aria, dinanzi alla sua semplice richiesta di notizie sulla morte «per ammazzatina» di Nunzia Bellofiore, la giovane e bellissima parrucchiera di Pizzuta.
Adesso, però, lasciando Milano e l’Università per le consuete ferie estive da trascorrere a Pizzuta, in compagnia dell’anziana ma vispissima madre, donna Evelina, vedova Lentini, Rosa si trasforma in filologa poliziotta:

Per un attimo riuscì a ironizzare su di sé: la filologa poliziotta o la poliziotta filologa [p. 81]

Che esistesse uno stretto confine tra i due ambiti professionali, quello del detective e quello del filologo, Rosa ne era convinta:

In fondo, disse tra sé, che cos’è un filologo se non un detective, un investigatore a tavolino: non di intrighi giudiziari ma di intrighi storico-letterari, la differenza è minima: casi caldi, tiepidi, freddi, cold case, come in certi telefilm di cui andava pazza. Sempre imbrogli sono, pensò Rosa, da una parte ci sono i testi, dall’altra le scelleratezze umane, le disgrazie, i delitti [p. 33]

E quell’estate se ne convincerà sempre di più, di giorno in giorno, di minuto in minuto, addentrandosi in quell’indagine sul caso di Nunzia Bellofiore, con ostinazione e con acribia, come precisa lei stessa, ricorrendo al vocabolo tecnico, professionale, in una ininterrotta riflessione sulle parole, sulle etimologie soprattutto, che attraversa le pagine di questo singolare e bel romanzo, come se fosse la filigrana semantica della storia, facendola transitare dalla «filologia del testo», alla «filologia della vita»:

Non stava riflettendo, aveva semplicemente percepito, in un battito di ciglia, che la sua vita sarebbe davvero cambiata e una volta tanto si era sentita attraversare dal fulmine della libertà e dall’ansia di immergersi come un palombaro nel caso di Nunziatina Bellofiore: filologia di famiglia [pp. 11-2]

La parrucchiera di Pizzuta è un romanzo firmato da Nino Motta, e uscito per Bompiani nel 2017, con il sottotitolo «Un giallo siciliano». In realtà, l’autore del libro è il giornalista e scrittore Paolo Di Stefano, che, in un raffinato gioco di specchi tra vita e morte, tra realtà e finzione, ha deciso di firmarsi con il nome del protagonista di un altro suo libro, Nino Motta, appunto, il tipografo del romanzo di successo “Tutti contenti”, che abbandona Milano per tornare a Messina, e per svolgervi un’indagine sulla sua infanzia, trascorsa in collegio. Anche ne “La parrucchiera di Pizzuta”, Rosa Lentini, la filologa detective, più volte, a commento di ciò che va scoprendo sui misteriosi fatti accaduti nel lontanissimo novembre del 1956, riflette sull’idea che, talvolta, per vivere veramente occorra morire:

Alla fine ho capito che il modo migliore per morire era continuare a vivere o forse il modo migliore per vivere era morire [p. 211]

Come esplicitamente si legge in una lettera autografa di Nunzia Bellofiore, che chiude il romanzo quasi riaprendolo, datata 16 febbraio 1978, dettaglio cronologico paradossale, per una che dovrebbe essere stata brutalmente ammazzata il 7 novembre del 1956, indirizzata a un’amica e confidente, e che Rosa riceve, come dono di quest’amica di Nunzia, una volta rientrata a Milano, a fine estate, leggendola in preda a una tale eccitazione che, come lei stessa precisa, nemmeno un autografo di Francesco Petrarca le aveva mai trasmesso.
La lettera di Nunzia si conclude con riflessioni morali che suonano, messe lì, in chiusura di libro, quasi come un «sugo» di tutta la storia:

Avrei potuto avere una terza vita, con un uomo che mi vuole bene […]: ti posso solo dire che oltre alle grandi soddisfazioni di lavoro che mi sono guadagnata con la fatica e la passione, ho avuto mille piccole gioie tutti i giorni, cose che quasi non si vedono tanto sono piccole: una cena, una gita, un viaggio, un incontro, un regalo, un bacio innocente, una parola.
Ti mando i miei più affettuosi saluti, e ricordati che la vita è questa, bisogna prendersi le gioie grandi ma specialmente le piccole perché quelle grandi non fanno mai, nel totale, l’insieme delle piccole [p. 212].

Parole che hanno il valore del bilancio (temporaneo) di una vita, quella di Nunzia Bellofiore, parrucchiera di Pizzuta, per davvero sorprendente. Come il lettore potrà scoprire, leggendo il romanzo, pagina dopo pagina.

La carriera universitaria di Rosa Lentini, filologa italianista, è a un punto morto, bloccata com’è da concorsi discutibili, nei quali, cioè, la ricercatrice non ripone più alcuna speranza, nonostante i suoi oggettivi meriti scientifici. Pertanto, Rosa sta decidendo di prendere un lungo congedo, una aspettativa, dall’Università, e, complice l’estate incipiente e il suo rientro a Pizzuta, allontanarsi dal mondo accademico per dedicarsi a quel suo rovello di gioventù: far luce sull’omicidio di Nunzia Bellofiore, la giovane e bellissima parrucchiera, nata nel 1936, misteriosamente ammazzata nel 1956, a soli vent’anni. Roda decide, dunque, di dare un taglio (quasi) netto con il mondo ipocrita dell’accademia («quel mondo di cerimonie, di ipocrisie e di tranelli», p. 11):

[…] dopo l’ultimo concorso fallito, il terzo, per i soliti maneggi baronali. Gran furberie, traffici loschi, scambi di favori, ignobili risarcimenti, posti predeterminati, vincitori annunciati, esami a porte chiuse o a porte aperte a seconda dei candidati […].
Così, aveva deciso a cuor leggero di sospendere per un po’: un anno, forse due, poi si vedrà […]. Addio, o almeno arrivederci, studenti carini e presuntuosi, ipocrisia dei colleghi e delle simpatiche giovani colleghe stronze e sempre affannate, tacchi alti e rossetto, in carriera anche al cesso […]; addio macchinazioni del menga degli emeriti strateghi baronali del menga; addio buongiorno e buonasera buttati là, nei corridoi del dipartimento, con la cordialità di un vaffa [p. 7].

Il romanzo di Motta (alias Di Stefano), in realtà, non è un «giallo siciliano», come recita il sottotitolo in copertina. Per lo meno, non è solo un giallo siciliano; esso, a mio modesto giudizio, è anche un giallo siciliano, ma non è solo un giallo siciliano. È molto altro. A cominciare dalla filologia, l’ecdotica, che, evidentemente, non è solo la scienza nella quale Rosa Lentini eccelle, avendo dato prova delle sue qualità scientifiche, curando, tra le altre cose, l’edizione critica del Codice degli Abbozzi di Francesco Petrarca (Vaticano latino 3196). No. La filologia, in questo romanzo, avendone larga parte, è metafora, è abito mentale, è visione di vita. Come ho già scritto, la filologia, qui, è la filigrana semantica che attraversa la storia, di pagina in pagina, che dà senso alle cose, agli accadimenti, piccoli e grandi, tragici o lieti che siano.

Il romanzo di Nino Motta è anche una storia dantesca. Sì, dantesca. È Dante, infatti, non Petrarca, il classico che fa capolino nelle pagine (e nella storia) di questo libro, grazie alla diretta voce di Rosa, e che aiuta la protagonista a orientarsi. Dante, non Petrarca, del quale Rosa è pur tra i massimi interpreti, in sede scientifica. Ma i riferimenti a Petrarca, all’interno del romanzo, sono quasi sempre freddi, oltre che sgradevoli, perché Rosa li associa alle ingiustizie accademiche che ha dovuto ingoiare, e che, adesso, non è più disposta a fare, fino a desiderare di abbandonare del tutto quel mondo infido, cerimonioso e ipocrita. Dante, invece, no. Ogniqualvolta, infatti, Rosa ne fa riferimento, o ne cita qualche verso, Dante e la Divina Commedia illuminano la storia, riescono a dare un senso alle vicende. Dante (non Petrarca) accompagna Rosa nel suo percorso (autentico) di vita e di ricerca. Per Petrarca, infatti, Rosa fa pronunciare all’anziana madre un commento irriverente, in margine al dettaglio che Petrarca avesse impiegato ben quarant’anni per scrivere una ventina di carte, quelle appunto del così detto Codice degli Abbozzi, in una conversazione alla buona, al ristorante, tra le due donne:

«Quarant’anni per venti fogli, ma che razza di testa aveva ‘sto Petrarca, o era un fissato o era un minchione. A me non m’è piaciuto “Chiare fresche e dolci …”»
«Fai conto che a noi ne son rimaste venti, ma può anche essere che altre pagine siano andate perdute. Doveva essere una specie di minuta, diciamo così, per semplificare, dove buttava giù le poesie per Laura …»
«Quella povera disgraziata …» sua madre commentava tra sé, forse senza ascoltare [p. 27]

Non così per Dante. Come comincia ad addentrarsi nel labirinto dei ricordi intermittenti, se non proprio reticenti, dei compaesani anziani, su quel fatto di sangue del novembre del 1956, tra ritagli di giornali, carte d’archivio e testimonianze ricavate in giro, Rosa ha la piena consapevolezza di trovarsi in una intricatissima «selva oscura»:

[…] da cui non le sarebbe stato facile uscire. Sua madre che si era seduta sul divano alla sua sinistra con le parole crociate e una penna bic tra le dita […], già abbastanza compiaciuta del proprio contributo […]. Anche lei era entrata nella stessa selva oscura, con Rosa, anzi davanti a Rosa, una specie di Virgilia… [p. 47]

Dante torna nei pensieri di Rosa poco dopo, nello sviluppo della sua indagine, all’interno di una riflessione sul concetto di «ineffabilità», di «indicibilità». Pizzuta come paese incapace di liberarsi del passato, ma anche incapace di accettare il presente:

Non dicibile. Un paese che non si poteva dire, definire, qualificare … [p. 53]

Dante tornerà in sogno, allorquando, cioè, Rosa, in dormiveglia, lo ascolterà recitare Tanto gentile e tanto onesta pare, ma con un piercing inanellato «nelle narici e nel labbro inferiore» [p. 74]. In coppia con Cavalcanti, Dante riemergerà in un momento particolare per lo sviluppo delle indagini che Rosa sta svolgendo, e precisamente nella pagina del romanzo in cui la filologa poliziotta percepisce di essere sulla strada giusta:

Queste erano le certezze incontrovertibili: i documenti scritti e orali. Rosa si sentì vibrare di pura ebbrezza da ricerca, avventura di conoscenza: felicità mentale. Si ricordò del saggio di una grande studiosa su Cavalcanti, Dante e l’aristotelismo radicale che aveva letto con ammirazione in anni lontani [p. 122]

Il riferimento è a Maria Corti (1915-2002), filologa, scrittrice e accademica italiana, autrice del saggio La felicità mentale, pubblicato da Einaudi nel 1983, che, come recita il sottotitolo, tracciava, per l’appunto, nuove prospettive di studio per Cavalcanti e Dante, nuovi (e inediti) indirizzi di ricerca.
Un concitato confronto dialogico tra Rosa e don Ciccio Drago, maresciallo dei carabinieri in pensione, già comandante di caserma a Pizzuta, con leggera balbuzie, e amico fraterno della buonanima di suo padre, il prof Lentini, coinvolto nelle indagini, dà lo spunto per una ulteriore riflessione dantesca sul così detto «effetto gregge». Tutti a Pizzuta ricordano la morte della povera morta, cioè, di Nunziatina Bellofiore, ma lo ricordano solo per «sentito dire». Chiacchiere che diventano realtà. Ecco una parte del colloquio tra Rosa e don Ciccio:

«La morte di Nunziatina è diventata convinzione diffusa»
«Effetto g-gregge»
«Potrei citare Dante, ma lasciamo stare»
«Dante? Che c’entra D-Dante?»
«Se una pecora si gittasse da una ripa di mille passi, tutte l’altre l’andrebbero dietro. Che ne dice?»
«B-bello, anzi b-bru-b-brutto» [p. 158]

La citazione dantesca è tratta dal Convivio, trattato I, capitolo II, passo 5, sulla mutevolezza umana, e, quindi, sul rischio di omologazione, nei comportamenti umani, che, però, è tipico del gregge, delle pecore, non degli uomini. L’invito di Dante, nel passo citato del Convivio, è quello di esercitare il proprio intelletto, di non omologarsi mai, di prendere sempre posizione. Questo invito, questo atteggiamento morale e intellettuale che l’uomo dovrebbe avere, viene ribadito da Dante solennemente in più passi della Divina Commedia, a cominciare, per esempio, dalla severa collocazione degli ignavi nell’Antinferno (o Vestibolo), non degni cioè nemmeno di entrare nell’Inferno vero e proprio, per questa loro tendenza a non aver avuto, in vita, il coraggio di assumersi le responsabilità. L’immagine della pecora, del gregge che si omologa, analoga a quella del Convivio or ora citata, è anche in Paradiso, V, 80:

uomini siate, e non pecore matte

La citazione tratta dal Convivio, sui comportamenti da pecora, Rosa Lentini la ripete a sé stessa verso la fine del romanzo, allorquando cioè i contorni ingarbugliati della matassa Bellofiore le sono, oramai, ben chiari, sentenziando che il suo paese, Pizzuta, sia più che un

paese di pecorai e ricotta, un paese di pecore [p. 181].

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