di Trifone Gargano
Con la cura editoriale di Ermanno Cavazzoni, Il viaggio di G. Mastorna, per i tipi Quodlibet, nel 2008 rimise in circolazione un testo in forma di racconto (e non di sceneggiatura) di un film pensato e scritto (ma mai girato) da Federico Fellini (con la collaborazione dello scrittore Dino Buzzati e dello sceneggiatore Brunello Rondi). Ermanno Cavazzoni, dunque, con questo suo lavoro “romanzesco”, raccontava la storia del mancato film di Fellini, che, se fosse stato girato, avrebbe dovuto narrare il viaggio e le peregrinazioni in un Purgatorio del XX secolo di un certo Giuseppe Mastorna. Un aldilà purgatoriale che somiglia molto al nostro al di qua terrestre. Protagonista di questo viaggio (sia per il film mancato di Fellini, che per il romanzo di Cavazzoni) è un musicista, un violoncellista di quarantacinque anni, Giuseppe Mastorna, che resta vittima di un incidente aereo, durante il volo di ritorno da Amburgo, diretto a Firenze, dove, con l’orchestra con la quale suona, avrebbe dovuto tenere un concerto. Secondo la finzione narrativa, G. Mastorna è convinto, come, del resto, sono convinti anche gli altri viaggiatori di quel volo (compreso il lettore del romanzo), di non essere stato vittima di un incidente aereo, e quindi di non essere morto, e che il pilota sia riuscito a effettuare un atterraggio «di evenienza» (così come viene definita dalla hostess la manovra compiuta dal pilota, allorquando la annuncia ai passeggeri, suscitando la sorpresa dello stesso Mastorna: cfr. p. 19), nel bel mezzo di una piazza di una non meglio precisata città nordica, probabilmente della Germania, o della Svizzera (uno dei viaggiatori, infatti, nel corso della vicenda, sostiene di riconoscere, tra gli edifici che si intravedono nell’oscurità, la facciata del duomo di Colonia).
Dopo l’atterraggio, Mastorna e gli altri viaggiatori vengono accompagnati in un motel, dove devono trascorrere la notte, e dove, però, cominciano a verificarsi strani episodi, ai quali Mastorna non dà, sulle prime, il giusto peso, e dei quali, a dire il vero, egli non riesce a comprendere il senso, o a darne una spiegazione razionale, plausibile, accettabile. Dunque, dopo un inizio piuttosto realistico, con la scena della turbolenza atmosferica e dei conseguenti problemi di viaggio, descritti con dovizia di particolari, fin nei dettagli più minuti e realistici, la scrittura di Fellini prende a caratterizzarsi in modo decisamente onirico, con il susseguirsi di situazioni, di dialoghi, di spostamenti di scena, e di comparsa di personaggi per davvero strampalati, magico-onirici, inverosimili. Compare, per esempio, improvvisamente, il mare, a colmare lo spazio tra un palazzo e l’altro di quella misteriosa città nordica; inoltre, la strada lungo la quale si trova il motel dove Mastorna e gli altri viaggiatori hanno trascorso la notte, dopo il presunto atterraggio «di evenienza», è costeggiata unicamente da chiese («chiese, gigantesche e piccole, antiche e moderne, chiese cristiane, romaniche, gotiche, barocche, moschee, pagode, sinagoghe, templi buddisti e anche idoli giganteschi …», p. 39), non da abitazioni o da palazzi, ma solo e unicamente da chiese.
L’aggancio esplicito con il Purgatorio dantesco lo si registra a p. 53 del romanzo, con la citazione dell’inno di compieta «Te lucis ante» [cfr. Pg., c. VIII, v. 13], qui cantato da una folla di chierici, di preti e di fedeli, per salutare l’arrivo, nella stazione ferroviaria di questa misteriosa (quanto sempre più improbabile) città, di «un solenne corteo di ecclesiastici in pompa magna, sovrastato da un lussuoso palanchino sul quale siede, in triregno e con un manto addirittura incredibile per ricchezza di ricami e di gemme, un papa» (p. 52).
Nella folla in partenza, alla stazione, Mastorna riconosce un suo amico, un certo Venturini, in procinto di partire anche lui, per il quale, però, Mastorna precisa che era morto ben quarant’anni prima, con evidente allusione, da parte di Fellini, all’analogo episodio dantesco delle anime che si addensano sul lido ostiense, in attesa dell’imbarco che le condurrà all’isola del Purgatorio. Anche nel Purgatorio dantesco, infatti, in modo speculare a questa situazione felliniana, quando Dante vede arrivare l’amico Casella, ch’egli sa esser morto tempo prima, si stupisce nel vederlo arrivare soltanto in quel momento.
Da questo momento in poi, Mastorna comincia a razionalizzare che, molto probabilmente, egli non sia più vivo, che dev’essere morto in quell’incidente aereo, e che, quindi, di conseguenza, dev’essere finito, non si sa come e perché, in quella strana città “purgatoriale”. Come in un film, Mastorna vede «il rottame di un grande aeroplano», e vede un «uomo supino [cioè, vede sé stesso]: la testa riversa indietro, la fronte sfondata. Ma il volto è ancora intatto, la bocca e gli occhi semiaperti: è lui, Mastorna» (p. 56).
Mastorna, che non vuole rassegnarsi al fatto che quell’aldilà nel quale è piombato sia tanto somigliante al mondo nel quale ha vissuto i suoi (primi) quarantacinque anni di vita, in preda allo sconforto, confessa che nell’aldilà debba pur «esserci qualcosa di diverso … qualcosa che non assomiglia a tutto quello che abbiamo già conosciuto. Non è possibile che tutto sia identico a prima. La stessa ignoranza, la stessa paura, le stesse vanità, la stessa baraonda» (p. 100).
Nella lunga lettera, che Fellini indirizzò nel 1965 al produttore Dino De Laurentiis, pubblicata in appendice (alle pp. 167-205) da Ermanno Cavazzoni, per spiegargli il progetto del film, e per annunciargli la stesura della sceneggiatura, tra le altre cose, Fellini, a proposito dell’ambientazione purgatoriale della vicenda, precisa che «noi proiettiamo in una dimensione che generalmente chiamiamo aldilà il cumulo delle nostre speranze, della nostra prigione educativa, della nostra ignoranza, senza renderci conto che questo aldilà, inventato, mistificato, fantasioso o moralistico condiziona inevitabilmente la nostra vita di qua, che di conseguenza viene a sua volta inventata e mistificata» (p. 181). Fellini, sempre nella lettera a De Laurentiis, aggiunge che «in un certo senso questo gran viaggio nell’aldilà è la precisa rappresentazione di tutti i drammi, le incertezze che hanno caratterizzato la vita del protagonista» (p. 182). Nella lettera, inoltre, Fellini ammette di non aver ancora ben chiara la fine del film, tranquillizzando, però, il produttore che un’idea ce l’ha ben chiara, e cioè che egli immagina Mastorna e «la sua ultima Beatrice su di un piccolo sentiero di montagna che continua a salire. Dopo un’improvvisa curva del sentiero si apre davanti la visione di un infinito cielo fermo. Anche l’ultima frontiera è stata superata. Ora l’accompagnatrice non può più proseguire il viaggio con lui. M. deve continuare da solo» (p. 203).
Il film, com’è noto, non fu mai realizzato. Fellini tornò più volte sul progetto, e, dopo vari tentennamenti, pensò anche all’attore che, a suo giudizio, avrebbe potuto ben interpretare il ruolo di Giuseppe Mastorna (individuandolo in Paolo Villaggio); disegnò pure – come precisa con scrupolo, e con dovizia di particolari e di ricordi personali, Vincenzo Mollica nella Prefazione al volume (alle pp. 7-14) – tutte le inquadrature della storia. Da questi disegni di scena, opera dello stesso Federico Fellini, successivamente, Milo Manara, in collaborazione con lo stesso Fellini, ricavò un fumetto (intitolato Il viaggio di G. Mastorna detto Fernet); ma il progetto del film restò sempre in quello stato di abbozzo. Ermanno Cavazzoni, dunque, scrittore onirico (e amico personale di Fellini), pensò bene, nel 2008, di dar forma di romanzo a questo viaggio purgatoriale di Giuseppe Mastorna.
Per parte mia, ricordando questo momento dantesco della vastissima e multiforme produzione felliniana, mi limito a offrire, a chi leggerà questa mia nota, un piccolissimo omaggio al grande genio del cinema italiano, in occasione delle celebrazioni per il centenario della sua nascita.