a cura del prof. Trifone GARGANO
Non avrei mai pensato di dover ricorrere a Petrarca (il mio “odiato” Petrarca), per meglio interpretare il senso dell’ultimo DPCM (dell’11.03.2020) del Presidente Conte, specie in quei suoi passaggi nei quali il documento governativo vieta alcuni comportamenti pubblici, come le passeggiate che creano assembramento (cioè, le passeggiate nei parchi, nei giardini pubblici, nei luoghi all’aperto della socialità).
Ecco il testo del sonetto XXXV del Canzoniere petrarchesco:
Solo et pensoso i piú deserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human l’arena stampi.
5Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d’alegrezza spenti
di fuor si legge com’io dentro avampi:
sì ch’io mi credo omai che monti et piagge
10et fiumi et selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch’è celata altrui.
Ma pur sí aspre vie né sí selvagge
cercar non so ch’Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io co’llui.
Il poeta, in questo testo, riprende e sviluppa una riflessione antica, intorno alla questione che la sofferenza interiore non possa essere evitata solo con l’espediente di abbandonare i luoghi consueti, cioè, i luoghi dove abitualmente egli soffre, per la semplice ragione che si tratta di una sofferenza interiore, dell’animo, che, quindi, ci segue ovunque. E questo pensiero è ben detto nell’ultima terzina: nonostante tutto, annota malinconico (e sornione) Petrarca, nonostante io fugga in luoghi aspri e selvaggi, Amore mi trova, e ragiona con me (…e io con lui).
Dunque, la lontananza dai luoghi frequentati, la ricerca della solitudine e il rifugio nella Natura selvaggia non riescono, come rimedi, ad alleggerire il peso, l’angoscia. Amore è un male inesorabile, ma che, tuttavia, sostiene Petrarca, nell’ultimo verso del sonetto, ha anche una sua dolcezza.
Certo, la riflessione di Petrarca sulla vita solitaria, alla quale dedicò un’opera intera (il De vita solitaria, appunto), rinviava al dibattito molto più grande tra due modelli di società alternativi e antitetici tra loro, e cioè la «vita attiva» e la «vita contemplativa» (questioni da lui affrontate, in parte, anche nel Secretum), e assumeva ben altri significati, dimensioni e coloriture (non tutte positive, per il nostro, anzi), che qui, però, non sviluppo. Posso anticipare, comunque, che è imminente l’uscita di un mio libro, per le «Edizioni del Rosone» di Foggia, incentrato proprio su questo aspetto della funzione civile della letteratura, nella costruzione (o nella negazione) di quelle necessarie competenze di cittadinanza attiva, di costituzione e di legalità, da perseguire attraverso la lettura e lo studio delle opere letterarie della nostra Tradizione.
La paura del contagio da coronavirus, le conseguenti proibizioni e i divieti dei DPCM di questi ultimi giorni, i nostri stessi comportamenti conseguenti, dettati da paura, se li esaminassimo e li interpretassimo attraverso il filtro letterario di questo sonetto petrarchesco (l’ideale di vita solitaria, la ricerca di luoghi selvaggi e non frequentati da altri nei quali rifugiarsi), potrebbero rivelarci una nuova verità, e cioè che il Covid-19, forse, ci sta rendendo migliori, e che, molto probabilmente, questo virus contenga in sé anche una certa dose di dolcezza, di positività. Intanto, ci dice che la sofferenza da contagio non può essere evitata semplicemente scappando dai luoghi del nostro vivere quotidiano.
Oggi siamo in emergenza, e non riusciamo quindi a riflettere, guardando oltre la situazione nella quale siamo immersi. Ma il Covid-19, molto probabilmente, ci sta parlando di una nostra fragilità interiore ben più profonda, che non riguarda soltanto il livello degli anti-corpi personali o collettivi (di difesa dal contagio), ma che, invece, attiene alle sfere più profonde del nostro io, e del complessivo modello di sviluppo del pianeta, tutto concentrato com’è sul profitto, e non sulla persona, e sulla ricerca e sulla tutela della qualità della vita.