TRA GIUNONE E IPSIPILE: OVIDIO, LA MOGLIE ROMANA E IL TIMORE DI ESSERE SOSTITUITA (Pt.1)

di Gabriele Colella

La sposa celeste di Giove e la moglie dell’Argonauta sono esemplari modelli dell’ira che la coniunx romana non può che serbare nei confronti della paelex, della propria rivale in amore. Soprattutto, a preoccupare la moglie, è il rischio che l’amante del marito la sostituisca appropriandosi degli spazi coniugali che le son propri, sconfinando nel suo campo di pertinenza. Per Giunone e Ipsipile è impossibile non tentar di scongiurare il pericolo di esser surclassate dalle rivali e, nel farlo, lamentare la propria precaria e infelice condizione e quella, altrettanto disastrosa, in cui versa il loro matrimonio, pericolosamente destabilizzato dalla presenza di un’altra donna che il binomio coniugale mai dovrebbe ammettere. Non resta che indagare, con sguardo sinottico, le parole che animano le lamentele delle due coniuges così da evidenziare punti di convergenza e interessanti analogie.

Sembra che, nel poema epico ovidiano, l’avversione di Giunone per la ninfa Callisto possa esser ricondotta ad un verso in particolare:

   …pro me tenet altera caelum (Met. 2, 513)

Giunone, affresco pompeiano.

La regina degli dei, furiosa per la trasformazione in astri di Callisto e del figlio Arcade operata da Giove, si rivolge, discesa negli inferi, a Teti e Oceano perché ottenga da loro che alle nuove stelle sia negato di specchiarsi nelle acque marine. In un sol verso Giunone, con tono lapidario, chiarisce il motivo della sua venuta: un’altra al suo posto regna nei cieli. Ai fini della nostra indagine testuale, una certa attenzione meritano, nel verso appena menzionato, altera e pro me. Che altera, dal colorito decisamente dispregiativo, veicoli il senso dell’estraneità di chi, come Callisto, si insinua nel rapporto matrimoniale, è decisamente evidente. Altresì chiara è la scelta di Giunone di non evocare il nome della rivale a cui piuttosto, in questa sede, preferisce riferirsi come altera, ‘l’altra’ rispetto a lei, l’unica legittima moglie di Giove. In questa sede, è vero. Ma, a ben vedere, questo verso certo non costituisce un caso isolato nella favola ovidiana. Mai in effetti la regina degli dei pronuncia il nome di Callisto. Alla ninfa colpevole di aver subito la violenza sessuale da parte di Giove, Giunone anzi sceglie di alludere ricorrendo a termini meno specifici quali paelex (‘rivale’), adultera (‘adultera’, per l’appunto) o importuna (‘sfrontata’, ‘arrogante’). La possibilità che Giunone non ricorra al nome proprio della ninfa perché animata dal tentativo di nascondere a sé stessa l’identità della rivale, è assai suggestiva e pare convincere. Un’attenzione particolare merita poi, nel verso 513, pro me. È quanto mai difficile non cogliere, nella suddetta iunctura, un decisivo riferimento al tanto temuto sostituirsi della rivale alla moglie. È al suo posto – spiega in effetti la dea – che Callisto possiede i cieli, quasi novella sposa di Giove. Non è tuttavia da sottovalutare che Giunone intenda, con pro me, affermare la propria presenza, se non addirittura la propria priorità a dispetto della rivale. E pare che la struttura del verso possa costituire un decisivo argomento a favore della validità di questa ipotesi: il predicato verbale tenet si frappone tra me e altera quasi a suggerire il contendersi di Giunone e Callisto del ruolo di regina degli dei e, più significativamente, di quello di moglie di Giove Onnipotente.

Un’analoga necessità di ribadire la propria presenza a dispetto dell’insinuarsi della rivale, si rinviene nell’Eroide sesta:

Barbara narratur venisse venefica tecum,
in mihi promissi parte recepta tori. (her. 6, 19-20) 

Ipsipile, miniatura cinquecentesca.

Rispetto ai versi precedenti, il distico citato rappresenta, nell’economia del componimento epistolare, il primo di una lunga serie di sezioni in cui Ipsipile appare ossessionata da Medea. È significativo che la prima volta in cui questo accade, la scrivente faccia riferimento alla possibilità che l’amante giaccia con Giasone in un solo letto e la immagini nel suo rapportarsi sessualmente e fisicamente all’Esonide. La gelosia della coniunx risalta in tutta la sua amarezza: Ipsipile sospetta che la sua rivale possa giacere nel letto con il marito proprio in quel lato del giaciglio a lei promesso in quanto coniunx. È il posto accanto a Giasone (la pars tori del v. 20) che Ipsipile reclama e non tollera che venga occupato da altri. È bene constatare il ricorrere del pronome personale di prima persona: mihi, in caso dativo, ben si attaglia al verbo promittere e costituisce un’interessante alternativa al pro me cui è ricorsa Giunone in Met. 2, 513. Tanto Giunone quanto Ipsipile, dunque, non possono fare a meno di esercitare la propria autorità di mogli con il ricorso al pronome personale di prima persona. Quello delle due spose si configura come lo sforzo di voler emergere nel verso e, anzitutto nel verso, voler affermare il loro ruolo a discapito delle rispettive rivali. Inoltre, osserviamo il participio passato recepta, ‘accolta’ che, in riferimento a Medea, esprime la calorosa accoglienza che Giasone lei riserva nel giaciglio e che Ipsipile, l’unica cui la pars tori dovrebbe esser concessa, lamenta con non dissimulata esasperazione. La medesima forma verbale riecheggia nel discorso dal taglio dichiaratamente ironico e permeato di amara autocommiserazione che Giunone tiene al cospetto del Titano e della divina sua consorte:

 sideraque in caelum stupri mercede recepta
pellite, ne puro tingatur in aequore paelex”. (Met. 2, 529-530)

Che Callisto e il figlio Arcade, nato dal rapporto sessuale clandestino con Giove, siano sottoposti a catasterismo, costituisce, per l’impotente Giunone tradita, una grave ingiustizia. È infatti come ricompensa dello stupro di cui anch’essa è colpevole – spiega la regina degli dei a suggello della richiesta di punire la vergine, avanzata a Teti e Oceano – che Callisto è stata trasformata in costellazione e, nonostante irrimediabilmente disonorata, elevata a livello delle divinità celesti. Al di là del ricorso, da parte di Giunone, all’espediente dell’allontanamento di Callisto-stella dalle acque marine, pena assai confacente a chi come la ninfa sia stata contaminata dalla perdita della verginità e merita dunque di prender le distanze dalla collettività, è degno di riflessione il rimpiego del participio passato recepta, anche in questo caso, esattamente come nell’Eroide sesta, riferito alla rivale in amore. Non si sarebbe troppo lontani dal vero se si affermasse che tanto in her. 6, 20 quanto in Met. 2, 529, il predicato verbale in questione assuma la stessa sfumatura semantica, quella di ‘accogliere’– oserei dire – ‘a braccia aperte’, ‘dare il benvenuto’. Pare infatti che il timore delle due mogli sia fondato sulla possibilità che il rispettivo marito accolga benevolmente e, soprattutto, volontariamente la rivale, che si tratti di riservarle una porzione del giaciglio (come nel caso di Giasone e Medea) o di garantirle un collocamento nella volta siderale (come in quello di Giove e Callisto). Che Recepta affiori nel lamento di Giunone e Ipsipile sembra suggerire l’esigenza del poeta di stabilire, attraverso un sapiente rimando testuale, una tutt’altro che indifferente somiglianza – se non proprio analogia! – nel modo in cui le due mogli rielaborino il dolore provocato dal tradimento e ne diano sfogo nel verso poetico.

 

 

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