di Gabriele Colella
Tra moglie e marito, tertium non datur. Ne sono ben consce Giunone e Ipsipile. La prima, moglie divina di Giove Onnipotente, padre degli dei; la seconda, moglie (almeno nella ricostruzione ovidiana della vicenda mitica) di Giasone, Argonauta. Coniuges, dunque. E, in qualità di coniuges, nulla è in grado di tormentarle più dell’esistenza della paelex, della rivale in amore. La prospettiva di venir sostituite dalle pretendenti si insinua nella loro mente, scava in profondità, le turba, le addolora. Così, Giunone e Ipispile, non possono non osteggiare le rispettive rivali: troppo grande il rischio di veder compromesso il loro matrimonio; imperdonabile esser scalzate dal ruolo di mogli.
Che sussistano allora delle ineluttabili analogie nella parabola esistenziale delle due donne, è evidente. Altrettanto evidente risulta la scelta del poeta latino Publio Ovidio Nasone (43 a.C. – 17 d.C.) di ritrarre similmente le due mogli, di escogitare significativi rimandi testuali tra il secondo libro del poema epico delle Metamorfosi (vv. 401-530), teatro dell’ira che Giunone serba nei confronti della donna rivale, e la sesta epistola della raccolta Heroides che il poeta di Sulmona lascia comporre all’eroina Ipsipile, dallo sguardo amaramente proteso verso Giasone e, soprattutto, verso Medea che il figlio di Esone ha a lei preferito.
Nel primo caso, quella che vede coinvolti Giove, Giunone e la sua rivale in amore è una delle miriadi di fabulae che animano il variegato caleidoscopio narrativo delle Metamorfosi. A partire dal verso 401 del secondo libro, il lettore si imbatte nel Padre degli dei intento a porre rimedio alle devastazioni che la scelleratezza di Fetonte, a cui il genitore Apollo ha sciaguratamente concesso di guidare il carro del Sole, ha determinato. Nel perlustrare l’Arcadia, gli occhi di Giove si fiondano sull’attraente Callisto, fanciulla del corteggio di Diana, necessariamente vergine e dedita all’attività venatoria. Ma chi – si domanda retorico il poeta – potrebbe opporsi a Giove Onnipotente? Certo non Callisto che, raggirata dalle false spoglie di Diana assunte da Iuppiter per sedurla, cede allo stupro comminatole dal padre degli dei. A nulla vale lo sforzo di Giunone, fremente di rabbia, di rendere la paelex un’orsa famelica se, nato Arcade dal rapporto sessuale clandestino tra Giove e la giovane ninfa, il padre degli dei interverrà a trasformare Callisto ormai bestia e suo figlio in costellazioni a cui la moglie di Giove ferita otterrà soltanto di sottrarre la possibilità di specchiarsi nelle acque marine.
Nel secondo caso, invece, si tratta della sesta lettera della raccolta Heroides (silloge di componimenti epistolari che Ovidio
attribuisce a diverse eroine del mito, abbandonate dai rispettivi uomini e per questo dolenti) quella di Ipsipile al marito Giasone, mitico Argonauta impegnato nella ricerca del vello d’oro. Il mito, per il quale Ovidio sembra massicciamente attingere alla versione elaborata dal poeta greco alessandrino Apollonio Rodio (295 a.C. – 215 a.C.) ne ‘Le Argonautiche’, vuole che Giasone, nel navigare verso la Colchide, faccia sosta sull’isola di Lemno, di cui Ipsipile è regina. La sua lettera si immagina scritta dopo il matrimonio con Giasone e, soprattutto, dopo che l’uomo, abbandonatala, ha fatto ritorno in patria in compagna di Medea, motivo di dolore per la coniunx dal cuore infranto.
Nei prossimi interventi mi preoccuperò di individuare, mediante la lettura sinottica della fabula metamorfica e dell’epistola amorosa, affinità e punti di convergenza relativamente al topos letterario dell’accanimento della coniunx ai danni della paelex. L’indagine verterà su tre aspetti connaturati al tema in questione: il pericolo di sconfinamento della paelex nel campo di pertinenza della coniunx; la discriminazione della pretendente operata dalla moglie; lo scongiuramento del rischio di contaminazione, di cui la rivale è portatrice, attraverso l’espediente dell’allontanamento.