TRA GIUNONE E IPSIPILE: OVIDIO E L’ALLONTANAMENTO DELLA RIVALE DA PARTE DELLA MOGLIE (Pt.1)

di Gabriele Colella

Non resta che concludere la nostra indagine relativa alle affinità sussistenti tra Giunone (nel secondo libro delle Metamorfosi) e Ipsipile (nella Eroide sesta), scandagliando un ultimo decisivo aspetto che pare assimilarle nell’atteggiamento iracondo ed evidentemente ostile da loro riservato alle rispettive rivali in amore: il voler fuggirle, eclissarle, allontanarle. Metterne in chiaro il perché con l’ausilio di esempi desunti dalla storia di Roma antica, sarà l’intento del presente articolo. Alle successive pubblicazioni affiderò invece l’onere di porre a confronto, con sguardo sinottico, il modo in cui Giunone e Ipsipile vengano, in maniera simile ma mai perfettamente sovrapponibile, nei due testi ovidiani, a operare l’allontanamento delle rispettive paelices.

Senza indugi dunque, cominciamo.

Che le due coniuges ricorrano entrambe, come imitandosi l’un l’altra, all’ espediente dell’allontanamento spaziale delle temibili loro paelices, non dovrà lasciar esterrefatto chi, con occhio critico e fare attento, sappia interrogare l’atteggiamento tipicamente romano nei confronti di quanti nella società siano considerati, per una condotta riprovevole loro attribuibile, elementi dannosi per la collettività e, in quanto tali, passibili di – violenta e spesso sanguinaria – espulsione. Dannosi, senz’ombra di dubbio. Ma in cosa – chiederete – più profondamente si traduce il danno che uomini e donne dal fare abominevole possono arrecare alla societas romana? A una parola sola, dalla folgorante attualità, lasciate che io sobbarchi la responsabilità della risposta: contaminazione. Non c’è crimine, nell’ottica pragmatica dell’uomo di Roma antica, che non sortisca l’effetto di contaminare, infettare irreversibilmente chi ne sia colpevole. Posta la questione in questi termini, l’adulterium di cui Giove onnipotente si è macchiato (tradendo, a più riprese si è detto, la moglie Giunone e possedendo sessualmente Callisto) e di cui anche e soprattutto la ninfa, quantunque sostanzialmente violentata dal padre degli Dei, è responsabile, finisce allora col contaminare la giovane paelex e lederne, fino a che essa non esali l’ultimo respiro, l’integrità morale. E lo stesso certo vale a maggior ragione per chi, come Medea, è per giunta stata protagonista consapevole (e non impotente vittima, come nello sfortunato caso di Callisto) dell’adulterio che Giasone commette a discapito della moglie.

Ma, soprattutto, quale la ripercussione in senso sociale della contaminazione che ammorba chi non regolarmente conduca la propria, singolare, esistenza? Chi è colpevole e dunque ha contaminato la propria essenza rischia, quasi pretendessimo di far coincider l’idea di colpa con quella di malattia infettiva, di contagiare il prossimo; per questo deve perentoriamente essere allontanato dalla collettività perché ad essa non faccia alcun male, perché di essa non metta a repentaglio l’incolumità. Ora, perché le mie parole non assumano il sapore di mere disquisizioni astratte, sono disposto a sottoporre alla vostra paziente attenzione almeno due esempi che, se da un lato certo in parte esulano dalla presente trattazione, dall’altro contribuiscono con efficacia alla comprensione della sollevata questione della ‘contaminazione’.

La cosiddetta ‘poena cullei’

Chi più di un parricida infama il proprio nome e commette crimen? Ordunque non apparirà sorprendente, alla luce di quanto detto finora, che i parricidi, nella Roma antica, fossero sottoposti a una pena alla quale sottende, seppur non troppo evidentemente ai nostri occhi, quella che anzi solo a fronte di una minuziosa analisi si rivela l’intenzione della comunità di allontanarli, eludere ogni possibilità di contatto tra sé e chi abbia causato la morte del proprio genitore. Questo è il senso più profondo a fondamento della cosiddetta poena cullei (‘pena del sacco’) destinata al parricida, per l’appunto. A seguito di una straziante tortura corporale, il reo viene chiuso in un sacco impermeabile assieme a un gallo, un cane, una vipera, una scimmia e gettato nel Tevere. Per lui nessuna possibilità di salvezza. Ma, attenzione: è massimamente il sacco a dover lasciar rifletterci. Quella riservata al parricida, infatti, non è un banale e inevitabile castigo. Tutt’altro. Col parricida la collettività si premura di eliminare ogni sorta di vicinanza e lo fa ricorrendo al sacco che possa rinchiuderlo, intrappolarlo, sottrarlo al rapporto (anche e soprattutto visivo, sia chiaro!) con la società che rischia di essere contagiata dal suo nefando comportamento.

Non basta. Assaporiamo assieme un altro significativo esempio, quello della pena comminata alle sacerdotesse della Dea Vesta che abbiano calpestato l’inviolabile voto di castità. Le Vestali incestuosae (alla lettera, ‘non caste’), una volta frustrate, sono condotte, spogliate degli attributi sacri e bendate, in una lettiga chiusa quasi si trattasse di cadaveri, presso il Campus sceleratus

Il supplizio di una vestale, Henry-Pierre Danloux. 1790.

(nei pressi del Quirinale) e qui abbandonate in una sepoltura. La sepoltura viene chiusa per sempre e della Vestale eliminata ogni memoria. Anche in questo caso, come in quello del parricida o delle paelices, il pericolo da cui la comunità romana si sincera di guardarsi è il medesimo: essere infettati dal reo o dalla rea che, perché tale, è contaminante. La vestale merita di esser bendata perché non veda, perché non scruti, perché cioè non possa, col proprio sguardo profanante, privare il malcapitato osservatore della sua integrità morale. La vestale merita di essere rinchiusa nel sepolcro perché quest’ultimo, proprio come il sacco per il parricida, possa schermarne l’effetto contaminante e possa, isolandola, garantire la salvezza degli altri cittadini.

 

 

 

 

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