di Gabriele Colella
Inauguriamo dunque la seconda parte del nostro studio comparato delle figure di Giunone (nel secondo libro delle Metamorfosi) e di Ipsipile (nella Eroide sesta), quella dedicata al topos letterario della discriminazione della rivale operata dalla moglie.
In effetti, l’ira serbata dalla coniunx nei confronti della paelex si traduce in un feroce accanimento di Giunone e Ipsipile rispettivamente ai danni di Callisto e Medea. È pur tuttavia possibile individuare decisivi scarti nel modo in cui le due mogli scelgono di inveire sulle pretendenti. E pare che queste differenze possano, primariamente, essere ricondotte al differente genere letterario cui appartengono da un lato le Metamorfosi e, dall’altro, le Heroides. Così, che il carattere spiccatamente monologico e riflessivo del componimento epistolare ovidiano conceda alla scrivente piena libertà di indugiare sulla natura barbara della rivale e di metterne in evidenza, a ogni piè sospinto, vizi e deficienze, non desta certo stupore. Parimenti, perfettamente allineata
alla struttura diegetica del poema epico è la tendenza della regina degli dei a non eccessivamente spendersi in taglienti invettive contro la pretendente (cosa che, d’altronde, ben poco parrebbe addirsi alla solennità del verbo divino) ma anzi a tradurre l’astio nutrito nei confronti di Callisto in azione, determinandone prima la trasformazione in orsa e, successivamente, precludendo alla ninfa ormai stella di specchiarsi nelle acque marine. Posta la questione in questi termini, il presente articolo e quello a venire dovranno limitarsi a indagare le rare analogie e convergenze tra la discriminazione della rivale operata da Giunone, ridotta a sporadiche ma decisive allusioni alla ninfa e quella, invece, operata da Ipsipile, la cui lettera è, agli antipodi della favola metamorfica, interamente percorsa da quello che sarebbe un ardito eufemismo definire l’intento della regina di Lemno di ‘screditare’ la rivale Medea. Orbene, cominciamo.
Pare che, nel secondo libro delle Metamorfosi, l’ostilità di Giunone per la ninfa Callisto si rifletta in soli due aggettivi – assai dispregiativi – di cui la regina degli dei si serve per alludere alla rivale in amore: adultera e inportuna. Non resta che passarli in rassegna singolarmente, riservare la restante parte del presente contributo all’analisi di adultera e rimandare alla prossima pubblicazione lo studio di inportuna. Così dunque Giunone esordisce nella fabula:
scilicet hoc unum restabat, adultera» dixit (Met. 2, 471)
Conclusa la sezione diegetica dedicata alla punizione inferta da Diana a Callisto per aver tradito il voto di castità, Ovidio passa a ritrarre Giunone che, adirata, trama vendetta. Soprattutto, a dolere la regina degli dei, è che Callisto abbia partorito Arcade, appropriandosi del diritto di generare prole che solo alla donna regolarmente sposata dovrebbe competere. Solo questo manca perché Giunone non indugi oltre e finalmente punisca chi, come Callisto, lo merita. È degno si nota, ai fini della presente indagine testuale, l’appellativo di cui Giunone si serve per identificare e, al col tempo, rivolgersi alla ninfa: adultera (‘adultera’, per l’appunto). Il termine deriva da adulterium (‘adulterio’), deverbativo da adulterare che, desunto dal lessico specifico del mondo della tintoria, dalla matrice etimologica riconducibile al pronome indefinito alter, -tera, -um (‘altro’), sta per ‘contraffare’, ‘alterare’ e veicola dunque il senso della mescolanza incontrollata, della contaminazione. Così, la colpa che Giunone imputa a Callisto ricorrendo al suddetto attributo, è quella di esser stata compartecipe dell’adulterio commesso da Giove ai danni di sua moglie, malamente tradita, e, non di meno, ai danni della stessa ninfa che, privata della sua verginità, è irreversibilmente impura, contaminante e per questo destinata a esser ripudiata dalla collettività.
Della medesima qualificazione negativa si serve Ipsipile per alludere a Medea:
Turpiter illa virum cognovit adultera virgo;
me tibi teque mihi taeda pudica dedit. (her. 6, 133-134)
Il distico ha del significativo: Ipsipile, a più riprese ribadita la spregiudicatezza della rivale, si mostra assai convinta della propria superiorità. In questa sezione dell’epistola, infatti, la scrivente appare quanto mai interessata a dimostrare al marito, inebetito dai veleni della Colchide, le differenze abissali che intercorrono tra lei e la pretendente, soprattutto insistendo sull’incurabile immoralità della barbara pretendente. In particolare, i versi appena menzionati vedono la regina di Lemno un’ennesima volta dolersi all’idea che Medea sia potuta entrare in contatto con Giasone e abbia potuto sedurlo, nonostante un casto matrimonio ancora lo legasse alla sua sposa. Immediatamente risalta allo sguardo il modo in cui la scrivente si riferisca alla rivale: la definisce adultera, adoperando così lo stesso aggettivo di cui Giunone si è servita per rivolgersi alla ninfa Callisto
e definirla in Met. 2, 471. La connotazione dispregiativa del termine è in questa sede, più che nel lamento della regina degli dei, rafforzata dalla presenza dell’avverbio turpiter (‘turpemente’ o, ancor meglio, ‘in modo tale da arrecare disonore, vergogna’) del v. 133 che, associato al predicato verbale cognovit (cognoscere nel senso di ‘conoscere carnalmente’) concorre ulteriormente a definire la mancata integrità morale di colei che si arroga, ricoprendosi di disonore, il diritto di conquistare l’uomo altrui. I versi evocati appaiono, inoltre, abilmente strutturati: non è inopportuno segnalare, in primo luogo, l’effetto contrastivo, antinomico, se non proprio paradossale, sortito dalla giustapposizione dell’aggettivo adultera al sostantivo virgo, ‘vergine’ (v.133, adultera virgo); in secondo luogo, non passa certo inosservata la disposizione degli elementi nel verso 134. L’idea dell’indissolubilità e dell’inalienabilità del binomio matrimoniale è sapientemente suggerita dal poliptoto del pronome personale di prima persona singolare (v. 134, me…mihi) intervallato da quello di seconda persona (v.134, tibi teque). Ipsipile è perentoria: il matrimonio, metaforicamente rappresentato dalla taeda pudica, ‘la pudica fiaccola nuziale’, del v.134 (rispetto al quale pudica, l’adultera del verso precedente stride a dir poco) ha consegnato lei a Giasone e Giasone a lei: tertium – ancora una volta pare insistere la scrivente – non datur.