TOGLIERE LA MASCHERA

di Trifone Gargano

A scuola, negli ultimi mesi, a causa di alcuni comportamenti dettati (e imposti) dai protocolli di sicurezza per coronavirus, è tornato di moda un autore come Luigi Pirandello, e, soprattutto, alcune sue illuminanti riflessioni sulla maschera, e sul conflitto tra vita e forma.

Per Pirandello, la vita è fatta di emozioni, sentimenti, e stati d’animo; ed è dominata da una conflittualità perenne fra le componenti fisiche e quelle psicologiche. Se l’uomo seguisse il flusso vitale, non sarebbe mai uguale a sé stesso, perché sarebbe sottoposto a un fluire continuo, a un continuo cambiamento. Pertanto, egli si sforza di dare forma all’esistenza. La ricerca di equilibrio tra vita e forma è impegno costante dell’uomo. Così facendo, egli spera (o si illude) di acquisire una personalità stabile, riconoscibile da parte degli altri. Di conseguenza, l’uomo finisce per indossare una maschera, che lo rende riconoscibile socialmente. La maschera diventa il tramite tra l’individuo e il mondo esterno. In base alla maschera scelta (per puro caso, per gioco, per necessità), ciascun individuo viene giudicato come buon padre di famiglia; professionista serio; perdigiorno; scioperato; inaffidabile; ragazzo diligente; alunno terribile; teppista; ecc.

L’uomo mascherato assume, dunque, comportamenti che sono coerenti con la maschera che indossa (o che gli è stata imposta). Sarà sufficiente, però, un banalissimo incidente, come accade un bel mattino a Vitangelo Moscarda, protagonista di Uno, nessuno e centomila, per prendere coscienza della presenza della maschera sul suo volto. Quando ciò avviene, la vita, che è stata compressa per lungo tempo, può emergere improvvisamente, e può condurre la persona mascherata a prendere consapevolezza della recita contro natura che sta interpretando. Compito dell’arte, sosteneva Pirandello, è quello di denudare i volti, di togliere la maschera, anche se, talvolta, tale processo può rivelarsi doloroso e drammatico.

Pirandello, inoltre, distingueva tra arte comica e arte umoristica. Tra avvertimento del contrario e sentimento del contrario. Ricorrendo al celeberrimo esempio dell’anziana signora vestita come se si trattasse di una giovane donna, con tacchi a spillo, gonna cortissima, calze a rete, ecc. La prima reazione, dinanzi a una simile mascherata, è il riso; se però ci si interrogasse sulle ragioni profonde che hanno spinto l’anziana donna a una tale mascherata, forse, se ne comprenderebbe il dramma.

Particolarmente interessanti appaiono, per il rapporto conflittuale maschera / volto, le battute finali dell’atto terzo del dramma Enrico IV, durante le quali lo sfortunato protagonista denuncia l’ipocrisia della vita ridotta a una mascherata, con o senza la maschera.

ENRICO IV.
Guarito, sì! Sono guarito! (A Belcredi) Ah, ma non per farla finita così subito, come tu credi […]!
(Accenna appena con la mano al Belcredi) A lui sembra ora una carnevalata fuori di tempo, eh? (Si volta a guardarlo) Via, ormai, anche questo mio abito da mascherato! Per venirmene, con te, è vero?
BELCREDI
Con me! Con noi!
ENRICO IV
Dove, al circolo? In marsina e cravatta bianca? O a casa, tutti e due insieme, della Marchesa?
BELCREDI
Ma dove vuoi! Vorresti rimanere qua ancora, scusa, a perpetuare — solo — quello che fu lo scherzo disgraziato d’un giorno di carnevale? È veramente incredibile, incredibile come tu l’abbia potuto fare, liberato dalla disgrazia che t’era capitata […]!
ENRICO IV
E non vedere più nulla, caro, di tutto ciò che dopo quel giorno di carnevale avvenne, per voi e non per me; le cose, come si mutarono; gli amici, come mi tradirono; il posto preso da altri, per esempio…. che so! ma supponi nel cuore della donna che tu amavi; e chi era morto; e chi era scomparso…. tutto questo, sai? non è stata mica una burla per me, come a te pare!
BELCREDI.
Ma no, io non dico questo, scusa! Io dico dopo!…
ENRICO IV.
Dopo? Un giorno…. chi sa come, un giorno, il guasto qua…. (si tocca la fronte) che so…. si sanò. Riapro gli occhi a poco a poco, e non so in prima se sia sonno o veglia; ma sì, sono sveglio; tocco questa cosa e quella: torno a vedere chiaramente…. Ah! — come lui dice — (accenna a Belcredi) via, via allora, quest’abito da mascherato! quest’incubo! Apriamo le finestre: respiriamo la vita! Via, via! corriamo fuori! (Arrestando d’un tratto la foga) Dove? a far che cosa? a farmi mostrare a dito da tutti, di nascosto, come Enrico IV, non più così, ma a braccetto con te, tra i cari amici della vita […]?
…sarei arrivato con una fame da lupo a un banchetto già bell’e sparecchiato […]

La vita vera, quella del «circolo», in abiti normali (non in maschera), quella delle occupazioni giornaliere, è forse autentica? o non è, piuttosto, anch’essa, finta, ipocrita, nient’affatto sincera? Ancora oggi, con o senza mascherina, quanti di noi recitano una parte? E non mi riferisco soltanto ai così detti vip, con le loro maschere appiccicate sulla pelle (magari, anche con l’aggiunta di mascherina griffata per coronavirus), no; mi riferisco a ciascuno di noi, noi gente comune: viviamo in modo autentico?

La maschera dà sicurezza. La maschera definisce e fissa caratteri e personalità. Indossare i panni di Superman, e andare al supermercato, o a scuola, potrà forse apparire bizzarro agli occhi degli altri, ma darebbe sicurezza, perché si tratterebbe di una forma compiuta, bell’e definita, che non ammette, cioè, scarti o rischi. Al contrario, la vita vera, quella quotidiana, con la sua perenne mutevolezza, quella, sì, che dà insicurezza, tormento e angoscia. La maschera no. Dunque, la maschera, o la mascherina, ci tranquillizza. Ma siamo autentici?

Come già scriveva Gianni Rodari, per il gioco di sbagliare le storie, il bambino che ascolta una storia è molto conservatore, vuole riascoltarla nello stesso ordine, quasi con le stesse parole della prima volta, perché vuole rivivere, ogni volta che la ascolta, le stesse emozioni della prima volta. La ripetitività delle parole, delle situazioni narrate, e delle emozioni provate, lo tranquillizzano, lo rassicurano. I cambiamenti, al contrario, lo destabilizzano. Alla stessa maniera funziona con l’assunzione di una maschera. La forma dà sicurezza, proprio perché è definita, chiusa. La vita, invece, al contrario, con il suo perenne fluire, «non conclude» (tanto per citare Vitangelo Moscarda), e quindi spaventa.

Infine, Giacomo Leopardi, che, in una riflessione contenuta nello Zibaldone, riguardante l’egoismo umano, che lui giudica come

 

«inseparabile dall’uomo […], mal diretto, male impiegato, rivolto ai propri vantaggi reali, e non a quelli che derivano dall’eroismo […]»

sostiene che esso ha il potere di togliere la «maschera», e di cambiare la «natura del commercio sociale», rendendo l’uomo una «belva»:

«gl’individui di quella che si chiama società, sono ciascuno in guerra più o meno aperta, con ciascun altro, e con tutti insieme; il più forte sotto qualunque riguardo, la vince» [Zibaldone, 672-3]

Per queste ragioni, anni dopo, Leopardi, nella Ginestra, avrebbe invitato gli uomini a unirsi, a formare la «social catena». E questo, mi sembra, in conclusione, che possa essere, ancora oggi, un invito da condividere, in tempi di coronavirus: altro che «distanziamento sociale», mascherine e plexiglas. La «social catena» come rimedio, e per tornare a essere pietosi, e non «umane belve» (per citare i Sepolcri di Ugo Foscolo).

Suggerisco la visione di questi tre film, che definisco pirandelliani, non già perché ricavati da opere di Luigi Pirandello, ma perché si rivelano tali per i rispettivi soggetti:

  • Happy Family, del 2010, di Gabriele Salvatores

Trailer ufficiale: https://www.youtube.com/watch?v=l63i6CukzvM

  • Birdman, del 2014

Trailer ufficiale: https://www.youtube.com/watch?v=YCjqeQKaHOE

  • The Mask, del 1994

Trailer ufficiale: https://www.youtube.com/watch?v=rIWIq0fV8r8

 

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