di Giulio Loiacono
Questo è l’interrogativo che ci ossessiona. Un interrogativo che, a mio parere, non esiste. E proverò a spiegare il perché. Qui il discorso si fa complesso e si tenterà di essere semplici. E, come si vedrà, non si potrà che arrivare alle medesime conclusioni. Tutto ciò, ossia l’avvento del rapace globalismo appunto, anche se non è proprio così, sembrerebbe originarsi dal e nel momento in cui la Cina sarebbe entrata nella Organizzazione Mondiale del Commercio. La realtà economica – e se volete con riflessi sociali – prevalse sull’idea che far entrare una dittatura ideologicamente orientata e che quindi potesse dirigere, su più di un miliardo di potenziali operatori economici, in maniera autoritaria, la disciplina della produzione e quindi dello scambio, dei costi, dei diritti sociali, dei salari, degli orari di lavoro e via discorrendo, sarebbe stato un rischio tremendo. Tutto ciò sarebbe entrato in crisi ora richiamando un ritorno, feroce, al localismo di matrice autarchica e mercantilista, tesa a spezzare la vitalità dello scambio di beni e servizi con l’erigere di muri daziari a tutela, presunta, del ruolo nazionale – o nazionalista – di ogni singola comunità statale. A tutto ciò si può opporre una semplice e razionale obiezione. Il globalismo risponde a due caratteristiche che, paradossalmente, vengono sollevate dai mercantilisti quali loro vessilli. Al di là di di discorsi legittimi ed inoppugnabili che l’approccio mercantilista produce-inflazione e conseguente stagflazione alle stelle, impatto mortifero sul potere di acquisto per ogni singolo operatore economico o famiglia o gruppo che dir si voglia, erosione costante del reddito disponibile, cioè la quantità di moneta a disposizione del singolo al netto della svalutazione, ecc..-l’antiglobalismo cade proprio su due temi: qualità e merito. Vi è dunque la compresenza di due elementi, l’uno soggettivo e l’altro meramente oggettivo. Quegli oggettivi sono di più facile individuazione: la svalutazione della qualità del prodotto in relazione alla capacità reali o potenziali dello stesso porta tutti gli operatori e commentatori a sconfessare i mercantilisti. In questi anni, infatti, il c.d. globalismo ha scelto la strada migliore nel costruire ed edificare la autodefinita „catena del valore” o supply chain. Mi spiego meglio con un esempio. Prendiamo la produzione agricola che apparirebbe la più lontana dall’idea di filiera complessa. Partiamo dal seme. Il seme viene scelto con le migliori caratteristiche organolettiche e di resistenza alle patologie tipiche della specie vegetale o da frutto ed è magari selezionato in un laboratorio olandese, svizzero o americano; viene sviluppato come germoglio in cultura idroponica in serra o del mare del Nord o della Scandinavia o del Canada; la piantina che ne vien fuori viene fertilizzata da prodotti russi, ucraini o balcanici; viene impiantata nel e sul suolo egiziano piuttosto che andino o messicano; il frutto che ne deriva viene scartato, se brutto o improduttivo dal distributore americano od europeo ed arriva, in tempo reale, su tutte le tavole del mondo. Come si vede, l’uomo ha condensato-o riuscito a fare-in tempi rapidissimi una catena così complessa ed apparentemente così oscura per arrivare a produrre un’arancia od una mela tutto l’anno, ad ottima qualità ed a costi contenuti, così come prodotti „esotici” o considerati di nicchia che hanno non solo migliorato ed ampliato le nostre conoscenze in materia dietistica o di costume ma, a parere di chi vi scrive non è poco davvero, ha contribuito fortemente alla riduzione della ignoranza di cosa sia e come è fatto il mondo che ci circonda. Ho fatto volutamente riferimento al prodotto agricolo tipico delle nostre tavole-un agrume piuttosto che una mela-che noi considereremmo italiano ma che, in realtà, non lo è. Sarebbe stato troppo facile far riferimento al mercato dei beni materiali e dei servizi immateriali, a quello delle scienze e della medicina, laddove il terreno comune della condivisione delle migliori idee ha innescato un processo di implementazione delle migliori capacità produttive e realizzative possibili. E con queste ultime righe ho introdotto anche l’elemento soggettivo, quello del merito, che, invece, a paradosso, viene sollevato come non presente nel „globalismo” e sostenuto dai mercantilisti autarchici. È più giusto parlare, infatti, a questo scopo, non di globalismo ma di libera circolazione. Non a caso uno dei pilastri, certamente non realizzati perfettamente, delle istituzioni comunitarie. Qui il discorso si rifarebbe complesso e ci porterebbe via molto tempo che, come diceva Mark Twain, è il principale mostro di chi scrive, parla o cerca di spiegare, ovviamente assieme alla conseguente noia. In due parole si può dire che, laddove, ad esempio, la UE, costituendosi come struttura fondamentalmente libera al proprio interno, si è chiusa in un fortilizio di natura securitaria-sin dall’86, con la contemporanea insorgenza dell’Atto Unico, premessa di libertà, e della Area Schengen, certezza di chiusura all’esterno, estrema fonte di contraddizioni-con eccessi di mercantilismo daziario a difesa di una specificità produttiva che ha contribuito ed ingenerato il caos ideologico e la insorgenza del nazionalismo tecnoautoritario attuale, fonte di incertezza economica e terrore sociale. Come si vede, anche gli attori del mondialismo hanno ceduto alla seduzione facile della barriera come argine delle ed alle paure del mondo grande. Dove si fa difficile la sfida? Far capire che un mondo grande non è e che la logica della libera circolazione favorisce lo sviluppo del talento individuale molto di più dell’individualismo cieco che si fa monopolio di idee e di sistema economico e che, con il volano della tecnologia e dei suoi tempi mozzati e della immediatezza delle risposte da dare a bisogni non urgenti ma impazienti di una collettività tenuta a ribollire nella pentola dei social, condanna a morte se stessa perché uccide la riflessione e la flessibilità delle risposte da dare perché il più delle volte complesse e lente per definizione.