di Carmela Moretti
Ci avete mai fatto caso che gli adolescenti, forse per mera esigenza di semplificare il mondo, lo organizzano in “etichette”? Per esempio, per loro il genere umano si suddivide in due categorie, senza sfumature e senza condoni: i fighi e gli sfigati. Di conseguenza, tutta l’esistenza non è altro che una dura lotta nel tentativo di far parte dei primi e di star lontano dai secondi. Non immaginano nemmeno lontanamente di essere caduti nel tranello di un “travisamento” etimologico e semantico, che porta loro – e ormai tutti i parlanti – a considerare l’aggettivo “sfigato” il contrario dell’aggettivo “figo”, anche per via di quella s- privativa che inganna. Invece, le due parole hanno origini diverse e hanno percorso strade diverse, poi a un certo punto si sono incontrate a un incrocio.
Ne abbiamo discusso in una classe terza della mia scuola media. Si parlava di cyberbullismo e invitavo i ragazzi a riflettere su questo: se nel bullismo c’è un contatto diretto, quindi il carnefice potrebbe scegliere la vittima tra coloro che gli risultano più sgradevoli, quali sono i parametri che inducono il cyberbullo a scegliere la propria vittima nel virtuale – una vittima che spesso non conosce nel reale?
Alza la mano ancora una volta la stessa alunna. Su questo argomento è molto loquace, forse ne sa molto, forse è soltanto molto interessata. “Eh, boh, prof…magari scelgono la persona che ai loro occhi appare un po’ così…”
“Così come?”
“Sfigata”.
È un assist perfetto! Perfetto per parlare del mondo delle parole, che certamente vivono un po’ di luce propria, ma molta è la luce che riflettiamo noi su di esse. E quindi, le modifichiamo, le confondiamo, le connettiamo, le plasmiamo, fino a portarle ad assumere coloriture diverse. Alcune le utilizziamo, loro malgrado, per offendere, isolare e maltrattare gli altri.
“Dal vostro punto di vista, quando una persona è sfigata?”, chiedo alla classe.
“Quando uno ascolta un altro tipo di musica”.
“Quando uno ama, che ne so, dipingere, invece di stare in giro con gli amici”.
“Per esempio, prof, all’inizio chi usava Tik Tok era considerato uno sfigato. Lo scorso lockdown per prendere in giro qualcuno dicevamo vai a fare i Tik Tok”.
Incalzo: “Ah, allora ‘sfigato’ è chiunque non è trendy. Caspita, però… le mode passano, le etichette no”.
“Sfigato” è un aggettivo di forma participiale e in origine non era altro che una forma più volgare, poi divenuta colloquiale, dell’aggettivo sfortunato.
Deriva dalla parola con cui, nella variante settentrionale, si indica l’organo genitale femminile. Se gli uomini che hanno largo accesso ai piaceri della carne potremmo definirli “ficati”, in una certa cultura maschilista non poter avere a disposizione l’oggetto del proprio desiderio sessuale doveva essere una vera iattura.
Ben più contorta e incerta è, invece, l’origine della parola fico/figo. Di origine romana, all’inizio veniva utilizzata per riferirsi a un tipo in gamba, dalle mille qualità. Poi è stata trasferita alla sfera estetica.
Ed ecco che chi fa parte del gruppo dei fighi ha i capelli curati, i vestiti trendy, il cellulare all’ultimo grido. Diversamente, si è… sfigati, parola presa e connessa – per travisamento o per assonanza – a un contesto non suo.
Resta il fatto che le due categorie sono prive di significato proprio. A decretare l’appartenenza a uno o all’altro contesto sono le mode. E nulla è più cangiante e mutevole delle mode.
Basterebbe questo per spiegare agli adolescenti che c’è un aggettivo più bello di figo e sfigato. È “autentico”. In questo braccio di ferro, vince sempre chi resta se stesso.