SECOND CHANCE, regia di Susanne Bier, Danimarca, 2014

di Luciano Aprile

Un tale di nome Emanuele Sacchi, su Mymovies, parla malissimo di questo film. E gli affibbia (bontà sua!) una stella. Trascuro di ricordare a quale film e quando, lo stesso sito abbia generosamente elargito anche quattro stelle e mezzo (“Snowpiercer”, ad esempio, un film sud-coreano del 2013, anche se allora la firma era di un certo Paolo Bertolin), per non dover rammemorare quale amara delusione mi sia toccato di sorbirmi (io che mi illudo di andare al cinema sempre e solo a botta sicura!). Il detto comune de gustibus…di fronte a questo argomento non vale! Perchè c’è un limite alla soggettività quando si scrive per il pubblico. Un limite basato su una certa qualità del racconto, delle immagini, del montaggio, delle interpretazioni degli attori. Nè può o deve valere qualunque argomentazione di tipo moraleggiante, magari astutamente mescolata ad una presunta analisi critica sull’intelligenza del plot. Ecco un pezzo di questo ‘capolavoro’ di recensione:

“Lo shock insistito a cui è stato sottoposto lo spettatore – pedantemente sottolineato dai primi piani e dalla macchina da presa in costante movimento – si rivela così l’ennesimo bluff attuato per condurlo verso dubbi etici di difficile risoluzione; oltre che per dare un senso a un’opera che, al di là della possibilità di generare dibattiti da salotto, non ne ha alcuno. Basterebbe l’eccesso grottesco con cui sono tratteggiati i genitori degeneri di Sofus a far capire come, al di là del messaggio insito, prevalga un approccio monodimensionale nell’osservazione dell’umanità: è il trionfo del pregiudizio e dell’ambiguità morale, in una confezione totalmente televisiva, contro l’osservazione critica e il ragionevole dubbio”.

Se si dovessero abolire gli shock dalla storia del cinema, se ne dovrebbe debellare una parte cospicua (incluso anche Hitchcock). Se per ‘dibattito da salotto, il ‘critico’ intende riferirsi al dramma (realmente esistente) delle mamme assassine, forse pensava all’annosa polemica sull’innocenza o colpevolezza della mamma di Cogne. Di quali eccessi grotteschi poi parla: ha lui per le mani, per caso, il termometro esatto di come siano le coppie di eroinomani cui capita di avere un figlio o quanto violento debba essere per essere credibilmente (e non grottescamente) un partner violento che picchia moglie e figlio, in quanto magari, oltrechè ‘tossico’, è pure psicotico?) Vedete bene quanto sia fuorviante intraprendere questa china per giudicare un film: basti il monito ricorrente che la realtà supera sempre la fantasia per far piazza pulita di questi pruriti ‘razionalisti’. Vero è che la tragedia, diceva Aristotele, deve essere più credibile della Storia, per poter rientrare in quei parametri dell’unità di tempo, luogo e azione, che fanno di un racconto una storia (con la minuscola) capace di generare emozione e stupore (shock, appunto, e catarsi).

Accantonato questo falso problema dunque (basti ricordare quanto sia diffusa la depressione ‘post partum’, quanto frequenti siano le violenze sui bambini, anche presso famiglie colte e perbene, per la tragicità determinata anche solo dal motivo ‘banale’ del non poter dormire la notte per i pianti continui del pargolo) non resta che ritornare al film. Salvaguardando il racconto, che merita come sempre di essere scoperto poco a poco dallo spettatore, il film dispone di attori molto bravi (la mamma ‘borghese’, ad esempio, Marie Bonnevie è una famosa attrice di teatro svedese, che ha esordito, tanto per dire, sotto le cure di un tale Ingmar Bergman); Ulrich Thomsen, qui semplice compagno di squadra del poliziotto protagonista, è da più di vent’anni laureato alla maggiore scuola di arte drammatica di Danimarca e ha partecipato al famoso “Festen” di Vinterberg e al precedente film di Susan Bier, “In un mondo migliore” candidato agli Oscar nel 2011. Meglio fermarsi qui perchè non è questo il problema.

Quanto poi alla ‘danesità’ del film (citata nella suddetta critica), se voleva essere un insulto (un po’ come quando si dice ‘un film francese’), pensiamo alla italianità di tantissimi film nostrani! Qui più che di ‘danesità’, che non so cosa voglia dire (siamo lontani, ad esempio, da Von Trier anche se, fra l’altro il film è prodotto proprio dalla Zentropa, casa di produzione fondata da Lars Von Trier) meglio parlare di cinema ‘nero’, anzi nerissimo: paesaggi freddi, cielo livido e acqua del mare pure; poche ambientazioni urbane, mediocrità e squallore, un lungo e inquietante ponte sopraelevato che sottolineano  ulteriormente il dramma e l’orrore che si sta incueneando nelle anime dei protagonisti. Gli interni domestici sono chirurgicamente separati in 1) un’arredo elegante, da benestanti borghesi, 2) uno squallido monolocale fatiscente, dova abita la coppia dei due cocainomani. Entrambe le famiglie hanno un bambino che curano, ovviamente in modo diametralmente opposto. Una separazione manichea che vuole avere solo la funzione di supportare le scelte drammatiche dei protagonisti (quelle che solleticano il tono morale della critica di Mymovies). Avviato il racconto, alla trama non resta che procedere per alcuni colpi di scena, alcuni dei quali hanno lo scopo dei deflagrare, nel loro autentico significato, solo nel proseguio della visione, suscitando una specie di agnizione epifanica nello spettatore, che riconnette mentalmente tutti i particolari che fin lì sembravano non avere senso o risultavano un po’ incongrui per la razionalità media (sempre dello spettatore). E anche questo è, psicologicamente, un titolo di merito. E alla fine il film risulta coeso, anche stilisticamente: viene evitata qualunque accelerazione dei tempi del racconto (tipo inseguimenti in macchina o sparatorie) mantendo una suspense psicologica che sta divorando dal di dentro i protagonisti (ognuno dei quali non conosce mai tutta la verità) e lasciando spazio anche a comportamenti dei protagonisti che hanno a che fare più col proprio inconscio che con scelte rivolte ad un fine specifico. Un dramma con più epicentri, tutti ruotanti attorno a un neonato e l’universo di aspettative, di paure, di problemi ma anche di fatica e di impotenza, che il suo arrivo genera in una coppia. E anche senza cadere nella trappola di dover giudicare un’opera per la sua profondità morale, qui anche di quella non si può dubitare: il problema esiste socialmente (e non certo solo in Danimarca) e psicologicamente. Ma poi ogni film propone dei personaggi, alcuni patetici, alcuni repellenti, alcuni anche un po’ stereotipati (come il secondo poliziotto, solo, alcolista, ma lucido e sensibile): tipi umani per i quali le generalizzazioni hanno senso solo a metà. Un film è un racconto per immagini, innanzitutto, che narra di storie particolari e individue, e che non sempre debbono diventare metafore di una qualche problematica esistenziale. Ciò detto, è ovvio che il recensore di cui sopra ha diritto ad avere i suoi gusti, ma se si fa una critica ad un film sapendo di essere letti e seguiti, occorre almeno un po’ di capacità di saper distinguere qualche propria idiosincrasia dalle qualità oggettive del film.

All’Abc di Bari, almeno fino a mercoledì prossimo. Se non ci andrà quasi nessuno lo toglieranno alla fine della prima settimana. E anche questo è un risultato sgradevole di certe recensioni. E sarebbe un peccato, perché il cinema di Susanne Bier merita di essere visto. Che sia o no danese!

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