SANPA: IN UN OCEANO DI VARIABILI, VARIANTI E POSSIBILITÀ DI VITA

di Renata La Serra

Lo scorso 30 dicembre la docu-serie italiana “Sanpa: Luci e tenebre di San Patrignano” di Gianluca Neri e Cosima Spender ha esordito sulla piattaforma Netflix, ritrovandosi nel mirino del pubblico più eterogeneo, della critica e di chi ha attraversato, almeno una volta, le mura della comunità di recupero, di cui Vincenzo Muccioli è stato fondatore e padre padrone.

La serie è suddivisa in cinque episodi da cinquanta minuti l’uno, ma l’impressione è quella di immergersi totalmente nel flusso di un racconto, capace di tenerci ininterrottamente attaccati allo schermo, mostrando i punti di luce e i punti d’ombra di una realtà macchinosa inglobata in un tessuto socio-culturale altrettanto complicato ed enormemente spinoso.

Personalmente degli anni di piombo ho sempre letto sui libri di storia.  Forse da brava figlia del mio tempo (nel bene e nel male) ho ereditato gli strumenti per connettermi alla velocità della luce con qualunque realtà e parte del globo terrestre.  Anche per quanto riguarda il passato, sono diversi e di varia natura i mezzi per riappropriarmene da attenta osservatrice, anche se solo in parte. Eppure esiste questa gran parte di storia, quella che mi precede, di cui scrivo quasi con difficoltà perché so che non mi appartiene, ma mi riguarda. Perché?

Mi riguarda perché è una storia ancora giovane, pur risalente negli anni, e perché giovani sono stati i suoi protagonisti. Mi riguarda perché è una storia ancora viva, come me e come chi ne ha parlato testimoniando e prendendo parte al progetto della serie. Infine mi riguarda perché tra tutti gli intervistati il volto scarno di Fabio Cantelli (ex ospite di San Patrignano), il racconto delle sue passioni, le sue poesie, la sua filosofia, hanno legato con un filo sottile la sua vita alla mia.

Fabio, scrittore e studioso di filosofia, è inciampato nel tunnel della droga per errore, il giorno che si sarebbe potuto rivelare uno dei più belli della sua giovinezza, nella preoccupata spensieratezza di un amore nascente. A San Patrignano è stato tra i primi a metterci piede, quando c’era ancora Vincenzo Muccioli, detto “il santone”, ad accogliere i ragazzi sulla soglia della porta, a conoscerli, a parlare e chieder loro cosa gli piacesse e cosa no. Vi entrò nel 1983 ventenne e ci rimase dieci anni. Studioso, colto, sveglio, si definiva un ‘’tossico da vetrina’’.

Fabio guarda fisso la telecamera e rievoca, di Vincenzo, quegli “occhi che gli trapassavano l’anima” mentre lui era fragile, stanco, con in corpo una lotta interiore che lasciava le sue cicatrici sulla pelle.

Alla fine, ribadisce Cantelli, chi si presentava dietro il cancello di San Patrignano non era alla ricerca di nulla, e nulla si aspettava. Vi arrivava per disperazione. Il tossicomane è una cartina di tornasole meravigliosa e formidabile per comprendere cosa non vada nella società, in quanto prodotto di quest’ultima. Ma al di là delle tragedie personali di chi vi si imbatte, la droga non è semplicemente una “cosa”, ma un mondo che risucchia chi ne dipende in toto, un mondo capace di rievocare quel “sentimento oceanico” di Freudiana memoria che tutti abbiamo sperimentato nel grembo materno.

Sentimento di riconciliazione con un tutto inesistente sulla terra la cui mancanza ci porta a cercare disperatamente, in un modo o nell’altro, di saziare dei vuoti incolmabili. Sentimento che si riproduce attraverso l’euforia e la sfavillante arsura di vivere iniettata dall’eroina. Poi: il cemento sotto i piedi, l’impervia strada da percorrere, un corpo imprevisto da muovere nell’impietoso limbo tra la vita e la morte. E un buco nero, prima a latere e poi centrale, pronto a risucchiarti.

E se la droga è dunque un mondo, per liberarsene era necessario costruire un mondo alternativo in cui immergersi e attraverso il quale ristabilire il proprio equilibrio. San Patrignano, all’epoca, era proprio questo: un mondo fabbricato da Muccioli su misura dei ragazzi, di cui erano proprio questi ultimi, insieme a lui, a costruire le fondamenta. Un mondo circoscritto, da cui era quasi impossibile uscire.

Muccioli e il suo staff (notevolmente cresciuto nel tempo) hanno infatti costruito una città a sé stante, poi ampliatasi in un vero e proprio stato indipendente, visti i numeri e le “strategiche” mire espansionistiche. Uno stato indipendente sostitutivo dello Stato che ha ignorato il problema della droga fomentando l’emarginazione degli ultimi e servendo così su un piatto d’argento a Muccioli la possibilità di rivestire un ruolo centrale nella gestione del problema. Il rischio e la pericolosità delle prospettive future della comunità sono subentrati nel momento in cui un grandissimo potere economico, politico e sociale si è concentrato nelle mani di un solo individuo-o di un gruppo ristretto di individui.

Vincenzo Muccioli, figura estremamente controversa, ha ricevuto eterna devozione da parte delle famiglie delle migliaia di vite strappate all’eroina. Spesso considerato un padre dai ragazzi stessi, Muccioli non si è mai fermato. A costo di recuperare, in persona, i ragazzi che tentavano di scappare. A costo di essere accusato di sequestro di persona. E ancora, a costo di essere criticato per le sue maniere forti.

Il suo grande e non trascurabile limite?  Seppur munito di tenacia, spirito di iniziativa e determinazione, mancava di professionalità. Alla radice delle problematiche che hanno contribuito ad accendere i riflettori sulla comunità c’era proprio la mancanza di una deontologia professionale che guidasse l’approccio comportamentale e terapeutico di Muccioli e dei suoi. Il discusso modus operandi radicalmente patriarcale (altresì chiamato “metodo San Patrignano”) e gli scandali ad esso correlati sono piuttosto facilmente riassumibili nella machiavellica frase ‘’Il fine giustifica i mezzi’’. Il ruolo di genitore investito da Vincenzo gli consentiva di ridere in faccia a coloro che si mostravano titubanti affermando che, da buon padre di famiglia, ‘’due schiaffi’’ non potessero che giovare.

E’ con questo approccio ironico e disinibito che il tanto discusso fautore di riti esoterici ha iniziato la comunità di San Patrignano: l’isola (in)felice che c’è ed è porto “sicuro” per tanti, tantissimi sbarchi.

Ed ecco che alcune domande di natura morale sorgono spontanee: per fare del bene, si può davvero usare qualunque mezzo? Le vite salvate giustificano quelle perse? Dov’è il limite, quando è necessario fermarsi? Tema ricorrente, questo, nel corso dei processi che hanno caratterizzato la storia della comunità. A partire dal primissimo “processo delle catene” verificatosi a seguito della voce fuori coro di una ragazza che denunciava alla polizia di essere stata segregata in una cella e incatenata dopo un tentativo di fuga, sino allo scandalo legato al ‘’caso Maranzano’’, scalfito da un terribile omicidio interno alla comunità.

 

Nella docu-serie, nonostante le ultime dichiarazioni dissociative annunciate dalla comunità poco dopo il suo debutto, vige l’imparzialità. A parlare sono i fatti, selezionati mediante un accurato, fedele e meticoloso lavoro d’archivio (fotografico e non) e commentati da chi ha toccato con mano la realtà protagonista di quegli anni. Tra le testimonianze, il figlio ed il fratello di Muccioli, la sua ex guardia del corpo e braccio destro Walter Delogu, alcuni degli ex ospiti della comunità.

Il tema è complesso e lo spettro è ampio. Vengono evidenziate svariate sfaccettature di una persona (e di una situazione) controversa, con diversi strati d’interpretazione. Emergono pareri diversi, talvolta contrastanti, accomunati però da un tratto indistinguibile: lo sguardo maturo, ormai consapevole, segnato dall’esperienza vissuta dentro quelle mura. E la descrizione di Vincenzo come un omone dalla voce forte e la luce negli occhi. Luce di un uomo chiaroscurale, soggiogato dal potere e governato da una passione che travolge e rende schiavi limitando la potenza d’agire coscienziosamente. Era questa la sua dipendenza: un sincero delirio di onnipotenza.

Tutto lievitava: persino il suo peso corporeo aumentava di pari paso con il potere. Mentre “Sanpa” cresceva esponenzialmente, i grandi numeri erano seguiti da un sistema sempre più organizzato e paurosamente affinato nei minimi dettagli. Al vertice della piramide c’era il ‘’santone’ ma i ragazzi ne hanno tenuta ben salda la struttura, facendo funzionare un sistema assolutamente gerarchico, suddiviso in settori ed iper controllato.

E se in 1984 di Orwell la terra è suddivisa in diverse potenze totalitarie (Oceania, Eurasia, Estasia…), a San Patrignano ogni zona rappresentava un settore di riferimento: la sartoria, la macelleria e via dicendo.

Ogni settore era capeggiato da un referente incaricato di controllare gli altri. Il lavoro scandiva le giornate, i contatti con le famiglie venivano ridotti al minimo indispensabile e le lettere prima di essere spedite subivano una preliminare censura. Veniva attuata una vera e propria logica del controllo: controllo totale di tutto e tutti. Mentre per Muccioli, morto nel 95, iniziava il declino, innegabile era l’evidenza dell’ormai inesorabile fallimento.

Fabio ne racconta i dettagli, scandisce le parole, si ferma a pensare guardando al suo vissuto. Il raggiungimento dell’acme dell’angoscia. Il tentato suicidio. Il suo corpo agonizzante raggomitolato in una brandina. L’ascesa verso la liberazione.  La sua presenza è esperienza. Il suo corpo è esperienza. Rimembra il sé di allora con tenerezza. D’altronde se lo deve.

Immagino la sua caduta libera (e quella di tanti altri) nel vuoto determinato dall’inconsistenza della realtà circostante e dalla spasmodica, irrisolta, fragile ricerca esistenziale. Penso a quella fatica propria dell’intima essenza della vita, alla difficoltà-comune e costante- dello stare al mondo privi del primordiale senso di infinito e di assoluto.

Fabio è stato accolto, recuperato, ahimè sequestrato, ma il senso della sua vita è andato a cercarlo altrove, lontano dal regime. In un oceano di variabili, varianti e possibilità di vita.

 

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