di Giulio Loiacono
Devo dire – è una cosa che faccio molto raramente – mi sono avvicinato alla visione del film leggendo prima qualcosa. Non farsi influenzare dovrebbe essere la regola. Questa volta ho trasgredito. Ma non poi così tanto. Ho solo letto che era una struttura da musical che reggeva, avrebbe retto, il film, che lo stesso Elton – buona parte il semplice e complessatissimo Reginald Dwight, nome da ereditiero indolente più che da rockstar – aveva fatto da supervisore alla sceneggiatura e che per la prima volta ci sarebbe stata, nel mainstream, una scena di sesso gay esplicita. Con questi tre capisaldi/idee fisse, e con in testa il mediocre Bohemian Rapsody da fungere da imprescindibile modello, mi avvicino alla visione.
Nella prima parte c’è un Reg che vive la sua timidezza di bimbo, che timido non è ma possiede voglia di esplodere in tutta la sua potenza scenica. Si trova a vivere in una famiglia che è fatta da un essere a-affettivo come il padre, da una frivola puttanella, la madre, che odia il padre e che lo tradisce in continuazione, con la consapevolezza che fin quando dura può ricattare il perbenismo di lui facendo- e facendosi- i cavoli suoi ed altrui. La madre – la nonna – , però , sono dotate di senso artistico del mediocre ed inutile averaged british man. Le donne provano attrazione per il bello oltre una certa media. Lo mandano a studiare piano e lo incoraggiano,accettando di riaccogliere nella loro casa lui e il grandissimo Bernie Taupin, la sua controparte e traduttore in parole delle sue superbe melodie ed intuizioni white soul e senza il quale il fenomeno Elton non sarebbe mai esistito.
Il suo primo produttore ed agente, oltre ad essere uno stronzo, è però uno che pensa in grande e gli dice di andare in America e spaccare tutto con uno show favoloso ed oltre le righe, a cominciare dai fantasmagorici abiti e occhiali.
Il resto è tutto prevedibile:il successo a palate, che lo porta ad occupare il 4% del mercato discografico; lo star-system, nella persona del suo egoista manager/amante John Reid, che lo trascina via perché il mondo non vuole la persona ma solo il suo talento; il suo destino di alcolizzato/drogato/maniaco depressivo e compulsivo, lo stesso mondo che lo salva perché vuol salvare solo il suo investimento, lui che non vuole ma che, a poco a poco, si ri-tira dentro il mondo.
Capisce che, se vuole sopravvivere, deve smettere di essere Rocketman, l’uomo sopra le righe, abbandonare la lucente strada di mattoni gialli e “going back to the plough”, di tornare di casa, anche se quella casa non c’è. Quella casa è lui, la sua identità di essere umano e cassaforte di sentimenti, solo così può andare oltre quella strada piena di lucenti illusioni e tornare nella sua foresta di emozioni, che è la vita.
“He’s still standing”. È questo quello che conta, per lui e per noi. Film vedibile. Non un capolavoro. Non orrendo come Bohemian Rapsody e più vero-e bello-di un fenomeno plastificato come La-La-Land.
Mi chiedo, a questo punto, se entrambi sono arrivati agli Oscar, questo Rocketman dove meriterebbe di arrivare?