di Ermanno Testa
Non c’è Comune italiano che non abbia, collocato in una piazza o in un parco del centro abitato, il suo monumento dedicato ai caduti della prima guerra mondiale: nei lunghi elenchi di nomi scolpiti sul marmo o sulla pietra in ordine alfabetico, non di rado ne compaiono alcuni che si ripetono più volte con lo stesso cognome, verosimilmente di caduti appartenenti alla medesima famiglia, quasi a rimarcare, se ce ne fosse bisogno, quanto atroce sia stato il prezzo pagato dalle famiglie italiane in quel conflitto. A volte su quelle lapidi è riportata la frase: “Ai caduti nella Quarta guerra di Indipendenza”.
Alla fine di quella guerra il fascismo, il cui fondatore inizialmente neutralista era divenuto all’improvviso un fervente interventista, cavalcò la retorica nazionalista e bellicista facendone alcuni pilastri della propria azione ideologica e politica. Ma che guerra era stata la cosiddetta Grande guerra?
Certamente all’inizio esso fu uno scontro tra potenze europee allargatosi poi ad altri Paesi, in primis gli USA, conclusosi ma non risolto con i successivi trattati di pace, tant’è che un conflitto di analoghe dimensioni si riaccese appena vent’anni dopo. In quello scontro, oltre che interessi strategici di portata mondiale, si intrecciarono anche varie e diffuse tensioni nazionalistiche che funzionarono da veri e propri inneschi del conflitto. La questione dell’irredentismo italico fu una di queste: mancavano al compimento dell’unità nazionale Trento e Trieste. Pur alleata con gli imperi centrali, all’inizio del conflitto l’Italia dichiarò la sua neutralità, sia perché impreparata militarmente, sia per l’opposizione interna alla guerra di molte forze sociali e politiche, in primo luogo il partito socialista. La condizione di non belligeranza offrì all’Italia la possibilità di intavolare trattative sugli assetti futuri dei territori contestati con ciascuno dei due opposti schieramenti, Imperi centrali e Paesi dell’Intesa: nella fattispecie, l’annessione delle città e dei territori di Trento e Trieste, a compimento dell’unità nazionale, e di parti della Dalmazia a suggello di un miglior controllo sul mar Adriatico. A quel che se ne sa tali condizioni, in cambio della non belligeranza, vennero accettate dagli alleati della Triplice anche se con una clausola particolare per la città di Trieste per la quale, trattandosi del porto naturale dell’Austria, si proponeva lo status di città autonoma. La monarchia italiana, vicina ai circoli militaristi e perciò favorevole all’entrata in guerra, fino all’ultimo mantenne aperta la trattativa con la Triplice continuando a ribadire la neutralità dell’Italia. E tale atteggiamento continuò a mantenere anche dopo aver raggiunto con le potenze occidentali un accordo segreto per la sua entrata in guerra al loro fianco: scelta decisa in base alla promessa di concessioni future non molto dissimili da quelle offerte, in cambio della non belligeranza, cioè della pace, dagli imperi centrali. Si trattò certamente di un comportamento meschino della monarchia che da un lato, nella conduzione degli affari internazionali, si rifaceva a quella tradizione di ambiguità, tipica di casa Savoia, che aveva segnato la formazione dello Stato italiano; dall’altro si mostrava colpevolmente ignara sia dei mutati potenziali bellici delle nazioni coinvolte, sia della natura imperialista e mondiale di quello scontro contenente i semi dell’autodistruzione dell’Europa sia, di conseguenza, dello sforzo terribile in sacrifici umani ed economici che la partecipazione al conflitto avrebbe comportato per l’Italia, Paese ancor giovane e non ancora consolidato. Fino a determinarne, nell’immediato dopoguerra, quel grave sconquasso politico e istituzionale culminato nella dittatura fascista.
Ben presto, al di là della retorica irredentista, anche la vicenda bellica italiana, sotto la spinta nazionalista da (finta) grande potenza dei circoli militaristi e dei fabbricanti d’armi, da guerra di indipendenza rivelò la sua vera natura di guerra imperialista. Ne fanno fede, alla conclusione del lungo sanguinoso conflitto, l’acquisizione di territori non di lingua italiana, come per esempio il Sud Tirolo, oltre che l’occupazione di varie altre località nel Mediterraneo; nonché lo spostamento strategico dei confini nazionali sulle cime alpine, ben al di là di quelli reclamati prima del conflitto, con l’inglobamento strategico, a fini energetici, di importanti bacini idrici. Ne fanno fede anche, nell’immediato dopoguerra, gli atteggiamenti di delusione e di rivolta, facilmente indotti in piena crisi economica nella massa dei reduci, verso gli accordi raggiunti nella Conferenza internazionale di pace. Accordi vissuti come un tradimento delle potenze cobelligeranti nei confronti dell’Italia e segnali di una vittoria mutilata, ma appunto perché considerati non in ottica patriottica per il compimento dell’Unità d’Italia bensì nazionalista, da Paese imperialista interessato a nuove conquiste. Ciò che si avvererà ben presto sotto il regime fascista. Su quei molti monumenti ai caduti della Grande Guerra, riportata come Quarta Guerra di Indipendenza, è contenuto a futura memoria il segno atroce di quell’inganno.