QUARANTENE, UNTORI E RIFUGI SOLLAZZEVOLI

di Trifone Gargano

Al tempo del coronavirus ci scopriamo vulnerabili, fragili e superstiziosi, nonostante tutto. Nonostante il progresso, nonostante l’istruzione, nonostante la tecnologia, nonostante tutto, dinanzi alla paura abbiamo reazioni che definire medievali è poco. Verrebbe da citare il poeta Salvatore Quasimodo: «Sei ancora quello della pietra e della fionda, / uomo del mio tempo…». Ciò che, infatti, si legge in rete in questi ultimi giorni, a proposito degli untori di casa nostra, cioè, a proposito degli incolpevoli abitanti di San Marco in Lamis, fa rabbrividire: insulti, offese e minacce di roghi collettivi.

Già Boccaccio, nel suo Decameron, con sguardo disincantato e ironico, aveva suggerito dinanzi a un flagello di portata funesta quale fu la pestilenza del 1348, di trovar rifugio in un bel giardino, con gli amici più veri, per trascorrervi le giornate anziché nel pianto (e nel rancore verso gli untori, verso Dio, verso gli astri e verso il mondo intero), con piacevoli e sollazzevoli storie.

Giungendo un po’ più vicino a noi, nel tempo e nello spazio, nel 1656, in occasione di un’altra terribile pestilenza, che colpì il Regno di Napoli, e che per Bari fu particolarmente devastante, lo scrittore barese di adozione (ma imolese di nascita) Fabrizio Veniero scrisse le Disavventure di Bari, pubblicate nel 1658, rifugiandosi in un bel giardino di casa nostra, a Sannicandro di Bari. Egli infatti, memore dell’insegnamento di Giovanni Boccaccio, scappò volontariamente da Bari, lasciando morte e pianto, trovando rifugio nel bel giardino di Sannicandro, dove si dedicò a scrivere il libro sul flagello pestilenziale che aveva colpito e che aveva decimato Bari e gran parte della sua provincia.

Le Disavventure di Bari di Veniero insistono molto sui riti religiosi, sulle processioni, sui gesti di penitenza collettivi che furono organizzati dal clero barese, invocanti la protezione del Cielo (cioè, della Madonna di Costantinopoli, e di san Nicola). Oggi, invece, la Chiesa italiana si è allineata al divieto governativo di sospendere messe e riti religiosi, per paura della diffusione del contagio, in taluni casi anche sbarrando l’accesso ai luoghi culto, serrando porte e portoni. Bisognerebbe ricordare, però, che proprio in Terra di Bari, Comuni come Acquaviva delle Fonti, per esempio, hanno nella memoria dell’intervento misericordioso della Madonna a protezione dal contagio pestilenziale la loro identità di comunità.

 

Ecco, dunque, che anche nella storia più triste di casa nostra, con la vicenda che ho ricordato di Fabrizio Veniero e del suo buon rifugio in un giardino sollazzevole, forse, riusciremmo a trovare un’indicazione metodologica, direi filosofica, per non cadere, dinanzi al coronavirus, nella spirale della fobia più nera e della paura più folle che si scatena contro tutto e contro tutti, contro gli untori e contro i diversi, o contro i lontani, siano essi cinesi, o abitanti di San Marco in Lamis, invocandone la messa al rogo.

Inoltre, da insegnante, piuttosto che rincorrere improbabili soluzioni avveniristiche per le quali, al di là dei singoli casi di Istituti e di Docenti già preparati (tecnologicamente e mentalmente) ad affrontare l’e-learning, consiglierei (e consiglio) ai miei studenti, per questi giorni di forzata quarantena, di ricorrere alle storie, alla letteratura, ai libri, ai bei romanzi da leggere. Suggerirei (e suggerisco) di vedersi con gli amici (sia pur restando a un metro l’uno dall’altro), per coltivare non l’odio e il rancore, ma gli affetti e l’amicizia.

Questa, credo, sia la prima lezione che un magister debba dare al proprio discepolo. I libri, gli amici, le storie di vita e di gioia, l’ironia e la speranza, credo che siano gli antidoti migliori dinanzi al contagio, tenendo gli occhi e la mente sempre ben aperti, e spiegando loro che anche il coronavirus è un evento che sta nell’ordine naturale delle cose, dal momento che la vita, quella vera, non è solo lustrini ed happy hour.

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