QUANDO SI PARTE IL GIOCO DE LA ZARA. Noterelle di sport e letteratura, tra Dante e Salgari

di Trifone Gargano

La «zara» era un gioco d’azzardo medievale. Il giocatore, utilizzando tre dadi, chiamava un numero, da 3 a 18, e, quindi, lanciava i dadi. Vinceva colui che, per primo, otteneva il numero chiamato. È facile intuire che, rispettivamente, il numero 3, e il numero 18, avessero bassissime probabilità di uscire, in quanto, in entrambi i casi, sarebbe stato necessario ipotizzare che tutti e tre i dadi avessero avuto come esito, nel primo caso, 1 (per un totale di 3); nel secondo caso, 6 (per un totale di 18). Al contrario, i numeri centrali, come il 10, o l’11, sempre in termini probabilistici, avevano maggiori chance. Di conseguenza, dal 4 al 9, le percentuali delle probabilità di successo crescevano; dal 12 al 18, invece, diminuivano.

 

Dante apre il canto VI del Purgatorio proprio con il riferimento a questo gioco:

«Quando si parte il gioco de la zara,
colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara;

con l’altro se ne va tutta la gente;
qual va dinanzi, e qual di dietro il prende,
e qual dallato li si reca a mente;

el non s’arresta, e questo e quello intende;
a cui porge la man, più non fa pressa;
e così da la calca si difende.»
[vv. 1-9]

Quando si conclude il gioco della zara [con i giocatori che abbandonano il tavolo da gioco], colui che perde resta amareggiato, ripetendo le giocate [i tiri dei dadi], e, deluso, impara [per poter vincere in futuro]; gli spettatori [tifosi] se ne vanno con il vincitore; chi gli cammina davanti, e chi lo afferra da dietro, chi, mettendosi di fianco, si fa notare; ma egli non si ferma e ascolta ora l’uno, ora l’altro; colui al quale [egli] porge la mano, non fa più ressa; e così si difende dalla calca.

Siamo al secondo balzo dell’anti-Purgatorio, ripido pendio roccioso, con le anime di coloro che si sono ravveduti in punto di morte (è la terza schiera dei negligenti: morti di morte violenta). Costoro, come in vita, tardarono a pentirsi, attendendo il momento estremo della morte (violenta), adesso, camminano in schiera, cantando il salmo 51 (Miserere), e implorando la misericordia divina. Prima di entrare nel Purgatorio verso e proprio, devono attendere, qui, nell’anti-Purgatorio, un periodo di tempo pari agli anni della loro vita terrena.

Il canto, dunque, si apre con una similitudine, che fa riferimento, appunto, al gioco della zara, precisamente, al momento finale di una partita, con la folla dei tifosi che attornia il vincitore, lasciando, invece, solo e in disparte il perdente. Dante, che, evidentemente, ben conosceva tale gioco, dice di procedere, tra quelle anime purganti, alla stessa maniera, attorniato, cioè, da una folla postulante: «Tal era io in quella turba spessa», v. 10. Le anime, in ressa, rivolgono a Dante diverse richieste, e lui, promettendo a ciascuno di soddisfare le rispettive preghiere, si libera dalla pressione: «promettendo mi sciogliea da essa», v. 12.

Verso la fine del Medioevo, svago e gioco cominciavano ad assumere un valore sociale sempre più rilevante, perché strettamente collegati con il sistema produttivo; in buona sostanza, proprio perché il lavoro elevava l’uomo dallo stato di pura esistenza, lo svago diventava sempre più una necessità, capace cioè di migliorare la qualità del lavoro, il rendimento del lavoratore. Sostanzialmente, questo passaggio, a fine Medioevo, segna, di fatto, la nascita della «sfera ludica», all’interno delle umane attività, che, nel corso dei secoli successivi, avrebbe assunto, via via, importanza maggiore, se non centrale.

Il romanzo d’avventura Capitan Tempesta, del 1905,

di Emilio Salgari (1862-1911),

si apre proprio con il riferimento a una partita a zara. Il romanzo è ambientato nel 1571, anno della celeberrima battaglia di Lepanto, combattuta nel Mediterraneo, il 7 ottobre 1571, tra la flotta cristiana e quella musulmana, che registrò una schiacciante vittoria della flotta cristiana su quella ottomana. La vicenda salgariana si situa proprio all’interno di tale cornice macro-storica. Teatro del romanzo è la città di Famagosta, nell’isola di Cipro, ultimo baluardo cristiano. Tutt’intorno, si estende il campo saraceno.

Tra gli eroi cristiani, si è distinto per il suo valore militare, un giovane, il cui solo nome incute terrore, e rispetto: «Capitan Tempesta». Si tratta, in realtà, di un’audace fanciulla, la duchessa Eleonora d’Eboli, abilissima nell’uso della spada, giunta lì, sotto mentite spoglie, per liberare il fidanzato, il visconte Le Hussière, caduto nelle mani dei turchi.
Ecco l’incipit del romanzo, con l’esplicito riferimento al gioco della zara:

— Sette!…
— Cinque!
— Undici!
— Quattro!
— Zara!…
— Corpo di trentamila scimitarre turche! Che fortuna avete voi, signor Perpignano! Sono ottanta zecchini che mi guadagnate in due sere. Ciò non può durare! Preferisco una palla di colubrina in corpo e per di più una palla di quei cani di miscredenti. Almeno non mi scorticherebbero dopo presa Famagosta.

Salgari è stato romanziere italiano tra i più prolifici, della seconda metà dell’Ottocento, notissimo, ancora oggi, almeno, per i cicli della «tigre di Mompracem», con il celeberrimo pirata Sandokan,

e del «corsaro nero».

Autore brillante e di successo, scrisse pure romanzi storici, e, con il romanzo Le meraviglie del duemila (1907), viene considerato come il padre del romanzo di fantascienza in Italia.

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