di Carmela Moretti
Un silenzio inquietante, pesante come un macigno, squarciato di tanto in tanto dalle urla strazianti dei deportati e dagli ordini grevi dei comandanti delle S.S. Questa è l’immagine sfocata che prende forma nella nostra mente, quando ci riferiamo con vivido disprezzo ai campi di concentramento.
Fu veramente così?
In realtà, fu anche peggio. Nei lager si udiva musica ovunque. La musica era suonata di continuo, scandiva il ritmo della vita di un prigioniero e assunse un ruolo fondamentale nell’esaltazione dell’orrore e nell’annientamento della dignità umana. Poteva essere di vari generi, jazz, classica, cabaret, marce, e dal canto loro i deportati cantavano molti motivetti sacri: ebraici, protestanti, cattolici. C’era musica anche durante le impiccagioni e prima di mandare a morte i detenuti nelle camere gas o nei forni crematoi. Un’orchestra o un singolo musicista in quei casi poteva suonare brani allegri, per distrarre i prigionieri da quello che stava accadendo, oppure veniva eseguito il cosiddetto “tango della morte”, presagio di una fine incombente.
Tutto questo non era che l’ennesimo ributtante insulto alla dignità dell’individuo, già abbondantemente calpestata.
Allo stesso modo, per alcuni detenuti la musica costituì l’unico sfogo, o meglio l’unico barlume di bellezza e speranza a cui aggrapparsi in tutto quell’indicibile orrore: molti erano stati grandi musicisti e avevano calcato soltanto poco tempo prima i più importanti palcoscenici del tempo.
Tra questi, vi era anche la bellissima Alma Rosé.
Viveva a Vienna ed era stata una violinista famosa già prima della guerra. Proveniva da una famiglia ebraica, con alle spalle una notevole tradizione musicale. Suo padre, Arnold Rosé, aveva fondato il celebre Quartetto Rosé ed era al contempo Primo violino all’Opera di Vienna. Lo zio di Alma era nientemeno che Gustav Mahler, compositore e direttore d’orchestra di fama mondiale.
Alma Rosé era in Olanda quando arrivarono i nazisti e a nulla valse la notorietà del quartetto che aveva ispirato compositori e riempito teatri. La portarono al degrado fisico e morale, in un lager. A Auschwitz-Birkenau assunse la guida dell’”Orchestra delle ragazze di Auschwitz”. Ciò per un po’ le risparmiò la morte del corpo, ma sicuramente non quella dello spirito.
“A Birkenau mi trovai di fronte ad Alma Rosé. Il suo viso era tranquillo e serio. La canizie le aveva intessuto i capelli neri che stavano ricrescendo. Senza dire una parola sistemò sul leggio uno spartito e mi mise in mano un violino. (…) La musica che eseguivamo conteneva in sé un qualcosa di infernale. Cominciammo a rendercene conto fin da subito, vivevamo quindi dei dilemmi di natura morale, delle incertezze in fondo all’anima: dovevamo suonare o no?”. Così racconta Helena Dunicz Niwińska, autrice del libro “Una violinista a Birkenau”, rinchiusa nel campo di concentramento dal 1943 al 1945. Durante l’internamento fu componente dell’orchestra del lager di Birkenau.
Alma Rosé dirigeva, orchestrava e talvolta suonava assoli di violino. Morì a 37 anni di una malattia improvvisa, nel campo.
Di lei ci resta pochissimo. Soltanto qualche testimonianza e struggenti fotografie in bianco e nero, che ci restituiscono tutta l’intensità della sua persona. E poi ci sono le note melodiose del suo violino, che proprio nella giornata della memoria, ci sembra quasi di sentir vibrare nell’aria frizzantina.
Vengono a ricordarci che quel che è stato può essere ancora.