di Paola Martelli
Libro sempre più intrigante, Francesco, man mano che si procede nella lettura: sempre più illuminante, questa “fenomenologia dell’amore”, sempre più godibile, divertente (in senso stretto e lato) e anche struggente, per chiunque sia stato affetto dal mal (e ben) d’amore…
Testo “serio” ma non serioso, asistematico quanto basta, e insieme rigoroso nella sua sfiorata sistematicità. Porti alle estreme conseguenze un momento fondamentale del lavoro teoretico, il “dialogo con i pensatori del passato”, spingendoti fino a una confidenza “inaudita”, in virtù della quale ti permetti di apostrofare Cartesio come “Il bel René”, e Sartre, semplicemente “Jean Paul”.
Tant’è. I pensatori morti non possono protestare. Ma ardisci chiamare Umberto Galimberti, (colta citazione cinematografica o riferimento malizioso a una presunta geografia anatomica del piacere femminile?), nientemeno che “Umberto G”. E i pensatori che interroghi non sono solo i filosofi stricto sensu, ma anche gli scrittori tout court. Lo diceva Freud, “andate a chiederlo ai poeti”, perché c’è di più, sulla natura umana, in un romanzo di Dostoevskij che in un tomo di neurologia. Filosofo “ironico” (in senso rortyano), con il tuo libro, ribadisci, senza pesantezze didattiche né “saccenteria” (perché i filosofi veri, la “verità” non ce l’hanno in tasca. In tasca hanno gli strumenti per cercarla e la consapevolezza che, anche se trovano qualche risposta, non sarà mai definitiva), che la filosofia può e deve aiutarci a condurre la nostra esistenza, giorno per giorno, fedele alla lezione del nostro comune Maestro, Giuseppe Semerari.
Tutto può essere oggetto di riflessione filosofica, tutto può e deve essere sottoposto allo “sguardo fenomenologico”, nel tentativo di recuperare il senso autentico delle “cose” (termine stigmatizzato in filosofia per la sua, non leopardiana, vaghezza, ma accolto con tutti gli onori se diciamo… e allora diciamolo!): nel tentativo di “andare alle cose stesse”. Così la filosofia viene a coincidere con la vita “pensata”, con un percorso esistenziale consapevole e responsabile, con l’esistenza come “pratica creativa”.
Tra i dubbi che instilli nel lettore, questo: “Non è che la filosofia, niente niente, può essere anche divertente?” E può esserlo senza tradire la sua funzione? Non è che un libro che parla di filosofie e filosofi, può essere piacevole senza barattare il rigore con il piacere? Buttando a mare tutta una serie di polverosi luoghi comuni, operi un revisionismo… di più, un negazionismo che stupirà alcuni e scandalizzerà altri: la filosofia “non” è noiosa, perché la filosofia è là dov’è la vita; perché, lì dove c’è un calembour, una freddura, c’è una “riflessione sul linguaggio”; perché evidenziando con un gioco di parole, la polisemia, l’ambiguità destablizzante di alcuni termini, s’inocula l’assurdo nella comunicazione, se ne mina l’impalcatura di convenzioni e luoghi comuni, se ne svelano i meccanismi, se ne mostrano i limiti e, insieme, le straordinarie possibilità; perché Il comico, “spostando i significati e rimettendo in discussione tutti i rapporti, ribalta la logica e capovolge il mondo”; perché l’ironia moltiplica i punti di vista, svela e denuncia le mistificazioni e gli inganni.
Quando, poi, tutto questo ha come oggetto l’Amore, allora nasce un libro come il tuo. Certo, corri il rischio che Kierkegaard (filosofo che ami) si rivolti nella tomba… ma… chissà…forse per le risate… Ah! Un’ultima cosa! Chiudi il tuo libro con una domanda (ça va san dire… sei filosofo…): “Così come in fisica esistono le unità di misura di lunghezza, velocità, pressione, forza, densità, potenza ecc. perché non dovrebbe esistere anche un’unità di misura dell’amore? Ecco, questa è la domanda finale che pongo a tutti gli apprendisti filosofi: qual è l’unità di misura dell’amore?”
Ci ho pensato stanotte, perché, si sa, “se l’amore è cieco, ben gli si addicono le tenebre” (Shakespeare… non so se mi spiego). Provo ad azzardare una risposta: l’unità di misura dell’amore potrebbe essere “cosa e quanto rimane, quando l’amore è finito”. Perché, ammettiamolo, narcisisti che non siamo altro, possiamo anche accettare di essere lasciati, giammai di essere dimenticati. “Gina, forse nel nostro amor cambiò qualcosa? Forse… non sono Gina, mi chiamo Rosa”, recitano due tormentati personaggi di Stefano Benni. E poiché, come ha scritto Ennio Flaiano, l’amore è una cosa troppo importante per lasciarla fare agli amanti, e aggiungo io, per lasciarla “pensare” ai pensatori seriosi, ti consiglio di aggiungere alla bibliografia della tua prossima fatica, La fisica dell’amore 2 – La vendetta, alcuni titoli come Gli asparagi e l’immortalità dell’anima, L’amore fa fare questo e altro e, soprattutto, Ma cosa è quest’amore? del grande Achille Campanile, autore relegato per anni nel ghetto degli umoristi. Recentemente, nelle librerie, è stato promosso allo scaffale degli scrittori.
Umberto Eco ne sottolinea la portata filosofica, riconoscendogli di sfiorare talora “vette che la semiotica e la filosofia del linguaggio si ostinano a scalare da secoli, come quello della componente deittica e contestuale del linguaggio”. C’è di che montarsi la testa e … allontanare i lettori. Per fortuna, Campanile, come te, non si prendeva troppo sul serio…
Con amore (… platonico).
23 novembre 2015