“LEI MI PARLA ANCORA”: L’INNO DI PUPI AVATI A UN AMORE D’ALTRI TEMPI

di Carmela Moretti

Partiamo da un presupposto: Pupi Avati, dopo una carriera lunga cinquant’anni, può prendersi il lusso di fare qualsiasi cosa. Anche se il suo ultimo film – uscito l’8 febbraio su Sky Cinema – non è proprio il film di cui avevamo bisogno, di fronte alla sua ennesima lezione registica e soprattutto di vita ci inchiniamo con rispetto.

Il regista emiliano non si è lasciato intimorire dal Covid. Si è sottoposto a norme di sicurezza rigidissime, a tamponi ripetuti, e ci ha donato questa romantica storia d’amore d’altri tempi. Se lo ha fatto, è forse perché sentiva l’urgenza di parlare al pubblico dell’immortalità dell’amore, trasportando sul grande schermo l’omonima autobiografia di Giuseppe Sgarbi, padre di Vittorio.

D’altra parte, del “finché morte non vi separi”, lo stesso Avati ne sa qualcosa, se dopo un tradimento e un allontanamento di alcuni mesi, pensò di ritornare da sua moglie, che poi risposò a 50 anni con piena consapevolezza.

Il film si svolge su due piani temporanei diversi. Nel presente, dopo sessantacinque anni di matrimonio, Nino (Renato Pozzetto), si ritrova senza la sua amata Rina (Stefania Sandrelli). Che, però, non va via davvero, perché le parla di notte e la sente costantemente accanto a sé. Per aiutarlo a elaborare il lutto e l’assenza, la figlia (Chiara Caselli) gli affianca un editor con aspirazione da romanziere, chiedendogli di scrivere un libro sulla storia d’amore dei suoi genitori. L’editor (Fabrizio Gifuni), è l’incarnazione di un approccio all’amore tutto nostro, tutto contemporaneo: separato dalla prima moglie, con una figlia di cui si occupa poco, ora ha una relazione con un’altra donna.

Il piano narrativo del presente viene ripetutamente inframmezzato dai ricordi e dai racconti del passato. Vediamo Nino e Rina giovani (Lino Musella e Isabella Ragonese): si incontrano, si sposano, rilevano la villa e una farmacia, fino a diventare collezionisti d’arte e a mettere su nella loro casa di Ro ferrarese un piccolo museo privato.

Complice un cast davvero eccellente – accanto ai già citati attori, anche Alessandro Haber, Serena Grandi, Gioele Dix, Giulia Elettra Gorietti e il talentuoso nostrano Nico Nocella – l’ultima opera di Avati è godibile. Colpisce la poesia, che è praticamente ovunque: nei dialoghi, nei riferimenti letterari, nelle inquadrature, negli sguardi. Il tocco è delicato, non mancano spunti di riflessione né occasioni di commozione, queste ultime favorite dalla sorprendente interpretazione di Renato Pozzetto, per la prima volta in un ruolo drammatico, in cui ci è parso totalmente a suo agio.

Dunque, con questo film Sgarbi in primis e Avati con lui sembrano essersi dati il compito di testimoniare l’amore con la A maiuscola, quasi a volerci dire: “Cari giovani, non sapete che cosa vi state perdendo”. E noi giovani generazioni, che non andiamo tanto d’accordo con l’ormai tramontato “per sempre”, sui titoli di coda ci ritroviamo ad abbassare il capo e a pensare che, sì, forse il film non è un capolavoro, ma sulla bellezza dell’amore immortale loro hanno ragione da vendere e noi ancora tanto da imparare.

PS: in realtà, viene anche da chiedersi da chi abbia preso Sgarbi l’altro, ma questa è un’altra storia.

 

 

 

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