LE MURA DI GERICO: DANTE, ALDA MERINI E SIMONE CRISTICCHI

a cura di Trifone Gargano

La terra santa

Ho conosciuto Gerico,
ho avuto anch’io la mia Palestina,
le mura del manicomio
erano le mura di Gerico
e una pozza di acqua infettata
ci ha battezzati tutti.
Lì dentro eravamo ebrei
e i Farisei erano in alto
e c’era anche il Messia
confuso dentro la folla:
un pazzo che urlava al Cielo
tutto il suo amore in Dio.

Noi tutti, branco di asceti
eravamo come gli uccelli
e ogni tanto una rete
oscura ci imprigionava
ma andavamo verso la messe,
la messe di nostro Signore
e Cristo il Salvatore.

Fummo lavati e sepolti,
odoravamo di incenso.
E dopo, quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno.

Ma un giorno da dentro l’avello
anch’io mi sono ridestata
e anch’io come Gesù
ho avuto la mia resurrezione,
ma non sono salita ai cieli
sono discesa all’inferno
da dove riguardo stupita
le mura di Gerico antica.

 

Le dune del canto si sono chiuse,
o dannata magia dell’universo,
che tutto può sopra una molle sfera.
Non venire tu quindi al mio passato,
non aprirai dei delta vorticosi,
delle piaghe latenti, degli accessi
alle scale che mobili si dànno
sopra la balaustra del declino;
resta, potresti anche essere Orfeo
che mi viene a ritogliere dal nulla,
resta o mio ardito e sommo cavaliere,
io patisco la luce, nelle ombre
sono regina ma fuori nel mondo
potrei essere morta e tu lo sai
lo smarrimento che mi prende pieno
quando io vedo un albero sicuro.

[da La terra santa, Scheiwiller 1984]

 

Gli anni tra il 1965 e il 1979, Alda Merini (1931-2009) li trascorse entrando e uscendo dall’ospedale psichiatrico «Paolo Pini» di Milano. Il manicomio, come lei scriveva, fu anche il luogo nel quale la sua poesia si risvegliò, dopo anni di silenzio, ma con una voce nuova, diversa dalle precedenti (l’ultima sua opera risaliva al 1962). L’ospedale psichiatrico diventava metafora del viaggio compiuto dagli Ebrei, per raggiungere la Terra Promessa. Un percorso che avrebbe condotto quel popolo eletto dall’inferno dell’esilio, al paradiso dell’approdo nella casa promessa. Agli occhi di Alda Merini, però, non fu (mai) così. Per lei, infatti, il Paradiso del fuori, cioè del mondo esterno al manicomio, era il suo vero Inferno. Fin qui, nulla di nuovo, nella lettura e nella interpretazione di questo testo (notissimo) di Alda Merini. Quella che ho appena sintetizzato è in effetti la lettura corrente di questa poesia (e dell’intera raccolta dalla quale è tratta).

In realtà, per comprendere meglio, più compiutamente, il messaggio di questa poesia, forse, andrebbe preso a modello, direi a fonte, l’episodio dantesco della meretrice Raab, di cui narra la Bibbia. Raab, infatti, nota prostituta di Gerico, aiutò Giosuè a conquistare l’inespugnabile città, ospitando in casa sua due emissari di Giosuè, che prepararono l’assalto alle mura altrimenti inaccessibili di Gerico. Finito l’assedio, Raab abbandonò la città distrutta, e seguì gli ebrei, ben accolta dal Popolo di Israele.

Raab

Dante, spiazzando i lettori di tutti i tempi, collocò questa prostituta nel cielo di Venere; anzi, la immaginò come la luce più splendente di tutto quel cielo, che è riservato agli spiriti amanti:

[…] nel sommo grado si sigilla [Pd., IX, 117]

I beati che Dante incontra in questo cielo (al quale dedica i canti VIII e IX del Paradiso) sono tre, e sono tutti e tre beati scandalosi, nel senso che tutti e tre, in vita, si erano lasciati condurre dal «folle amore», dalla loro rispettiva propensione per l’amore sensuale, vissuta in maniera gioiosa e gaudente. Si tratta delle anime di Cunizza da Romano, di Folco da Marsiglia (noto anche come Folchetto), e, appunto, di Raab, con la quale il canto IX si chiude.

Ebbene, ritengo che questa poesia di Alda Merini debba essere letta avendo a mente proprio l’episodio dantesco del cielo di Venere, per comprenderla fino in fondo, nella sua «folle» oscillazione tra Inferno (la dannazione) e Paradiso (la salvazione), e per i suoi continui riferimenti all’amore, cioè al diritto ad amare dei pazienti reclusi nel manicomio, con la conseguente, dolente, sottolineatura della condanna perbenista di questo esempio contemporaneo di «folle amore»:

[…]

E dopo, quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno […]

I rinvii intertestuali tra i due testi (quello di Dante e quello della Merini) sono tanti. A cominciare, per esempio, dalla presenza del vocabolo luce, che in Dante è parola chiave:

Tu vuo’ saper chi è in questa lumera

che qui appresso me così scintilla

come raggio di sole in acqua mera.

Or sappi che là entro si tranquilla

Raab […] (Pd., IX, 112-16)

Con la presenza forte, in appena tre versi, di vocaboli legati alla sfera semantica della luce: «lumera – scintilla – raggio – sole».

In Merini, invece, il vocabolo luce compare esplicitamente alla fine della poesia («io patisco la luce»), a sottolineare una perdita, una sofferenza, nel passaggio tra l’Inferno (del manicomio) e il Paradiso (del mondo normale), accompagnata dal desiderio paradossale di non voler fare quel passaggio, che la condurrebbe non dal buio alla luce, ma, al contrario, dalla luce al buio.

Dante, pur uomo medievale, salva Raab (e anche Cunizza e Folchetto). Salva il loro «folle amore», collocandoli in Paradiso, come spiriti luminosi (e felici). Merini, invece, grida il suo dolore, nei confronti del nostro mondo (ipocrita), che condanna il «folle amore» del manicomio:

[…] non sono salita ai cieli

sono discesa all’inferno
da dove riguardo stupita
le mura di Gerico antica […]

Questo è il grido più autentico del testo di Alda Merini, il grido cioè di chi rivendica il diritto al «folle amore»; quello stesso amore che (il vecchio e medievale) Dante aveva riconosciuto a Raab (e agli altri due), e che, invece, il nostro mondo, pur laico e post-moderno, non riconosce a un malato psichico:

[…]

E dopo, quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno […]

Segnalo, infine, di Simone Cristicchi, giovane cantautore italiano, la canzone Ti regalerò una rosa, del 2007 (dall’album Dall’altra parte del cancello), per la sensibilità con la quale anch’egli affronta il tema della vita e dell’amore negli ospedali psichiatrici (Cristicchi, come già Merini, non ricorre a eufemismi borghesi e distanzianti, del tipo «ospedale psichiatrico», ma al crudo vocabolo manicomio):

Ti regalerò una rosa
Una rosa rossa per dipingere ogni cosa
Una rosa per ogni tua lacrima da consolare
E una rosa per poterti amare
Ti regalerò una rosa
Una rosa bianca come fossi la mia sposa
Una rosa bianca che ti serva per dimenticare
Ogni piccolo dolore

Mi chiamo Antonio e sono matto
Sono nato nel ’54 e vivo qui da quando ero bambino
Credevo di parlare col demonio
Così mi hanno chiuso quarant’anni dentro a un manicomio
Ti scrivo questa lettera perché non so parlare […].

Per chi volesse ascoltare la canzone di Cristicchi, può far clic sul seguente Code QR:

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