di Gabriele Colella
Un altro topos che ricorre in tutte le sette lettere scritte dalle coniuges è la professione della fedeltà da parte della moglie e del marito innamorati. Per questioni di praticità, è necessario distinguere tra le epistole in cui sono esclusivamente le eroine a confessarsi ai rispettivi mariti e quelle, invece, in cui moglie e marito si scambiano, vicendevolmente, promesse di fedeltà. Qui, analizzeremo le epistole in cui sono le mogli affermano la propria fides al marito: quella di Penelope a Ulisse (her. 1), quella di Ermione a Oreste (her. 8), quella di Deianira a Ercole (her. 9).
Per quanto concerne la promessa di fedeltà, nella prima Eroide si leggono versi significativi:
Me pater Icarius viduo discedere lecto
cogit et immensas increpat usque moras.
Increpet usque licet: tua sum, tua dicar oportet;
Penelope coniux semper Ulixis ero (her. 1, 81-84)
All’oscuro della sorte del marito, presa dal timore, Penelope si lascia andare al tormento tipico della moglie abbandonata. Nella sezione immediatamente precedente, la coniunx scrive che suo padre Icario la obbliga ad allontanarsi dal letto vuoto, e rimprovera i suoi interminabili indugi (vv. 81-82). Non sorprende che proprio a questo punto dell’epistola Penelope si dichiari coniunx Ulixis e che, subito dopo aver menzionato suo padre che la costringe (v. 82 cogit) a porre fine ai suoi tormenti, la donna ribadisca la propria appartenenza a un solo uomo, suo marito. Soltanto a patto che si continui a considerarla moglie di Ulisse, Penelope è disposta a rispondere all’autorità del genitore. Tramite la lettera, dunque, Penelope si confessa al marito lontano; la sua fedeltà si fonda sul dichiararsi esclusivamente sua. La ripresa anaforica dell’aggettivo tua è particolarmente efficace per accentuare la possessività connaturata alla relazione matrimoniale e, quindi, per sottolineare l’appartenenza di Penelope a Ulisse. Alla potenza espressiva delle parole della donna contribuiscono più elementi: l’alternanza del verbo essere, in forma presente prima (v. 83 sum) e futura dopo (v. 84 ero), atta a definire l’immutabilità del sentimento della coniunx nel tempo; l’avverbio semper (v. 84) che intensifica l’idea della fedeltà incontrastata ed eterna della moglie nei confronti del marito assente; l’uso della costruzione impersonale retta da oportet: nel verbo confluisce la nozione di convenienza e di dovere morale, e non tanto quella di necessità. Penelope – sembra suggerire il poeta latino – non nutre alcun bisogno di esser detta moglie di Ulisse. Per la coniunx essere designata tale è anzi una sorta di responsabilità, un onere che esige un pubblico riconoscimento, come la specificazione di dicar (v. 83) sembra voler sottintendere.
A differenza di Penelope, Ermione riconosce che il suo attaccamento ad Oreste dipende non solo dalla loro relazione matrimoniale, ma anche dall’indissolubile legame genealogico che li unisce in quanto cugini. Oreste, alla luce di questo, è suo marito, ma, allo stesso tempo, molto di più: l’uomo è per lei vindex (v. 7), dominus (v. 8), vir (v. 1, v. 28), frater (v. 1, v. 28), suo pater se lei fosse stata sua madre (v. 41). In virtù della straordinaria importanza che Oreste riveste per lei, Ermione giura eterna fedeltà al figlio di Agamennone:
Aut ego praemoriar primoque exstinguar in aevo,
aut ego Tantalidae Tantalis uxor ero. (her. 8, 121-122)
Si tratta dei versi conclusivi dell’epistola; come spesso accade, sono i giuramenti a contrassegnare le battute finali della compilazione. L’eroina giura sulla propria stirpe infelice, sulle ossa di suo zio, che lei, una Tantalide, rimarrà per sempre sposa di Oreste. Se così non dovesse essere, sarà pronta a morire giovane. Osserviamo con attenzione le parole dell’eroina. In primis, salta all’occhio che rispetto a un più sobrio tua uxor ero, Ermione preferisce Tantalidae tantalis uxor ero. Il motivo? La tendenza irrefrenabile della scrivente a sovrapporre i piani temporali della propria esistenza e a riversarli, come confusamente, nella scrittura. Nei versi appena citati, in particolare, la donna lascia che il passato abbia conseguenze sul suo presente, e invoca la sua antica discendenza da Tantalo anche quando immagina il futuro, con la promessa di rimanere per sempre fedele moglie di Oreste, in virtù della appartenenza alla stessa stirpe. Ma non basta: è degna di nota in her. 8 la potenza espressiva degli ultimi versi dell’epistola: morire subito o per sempre esser sposa di Oreste.
Il parallelismo tra le parole di Penelope e quelle di Ermione è evidente: a livello linguistico è possibile notare che l’anafora di tua nei versi di Penelope (her. 1, 83, … tua sum, tua dicar oportet) si riproduce, sotto forma di poliptoto, in Tantalidae Tantalis (her. 8, 122), al fine di enfatizzare il legame imprescindibile che esiste tra la donna che si confessa e il suo amato. Inoltre, è opportuno riflettere sull’uso del futuro del verbo essere: coniunx semper Ulixis ero si riflette in Tantalidae Tantalis uxor ero. È evidente, dunque, che le due donne professano la propria fedeltà in maniera simile. È possibile, tuttavia, osservare degli scarti. Una prima differenza si riscontra nella denominazione cui ricorrono le eroine per qualificarsi, rispetto a Ulisse e a Oreste. Penelope si definisce coniux (v. 84), Ermione, invece, ricorre al sostantivo uxor (v. 122). L’utilizzo di due termini differenti è tutt’altro che casuale: il primo sembra essere più generico; il secondo, più specifico. Mentre coniunx, infatti, designa letteralmente la ‘coniuge’ e allude, indistintamente, a moglie e marito; uxor, invece, identifica una “femme légitime prise par le mari”, caricandosi di una valenza spiccatamente giuridica: Ermione sa che Oreste è suo legittimo sposo. Non è dunque casuale il ricorrere del poeta a due termini diversi, eppur sinonimici. L’intento di Ovidio, anzi, è proprio quello di suggerirci la diversità delle mogli, assegnando loro un copione differente. Così Penelope si definisce coniunx, “moglie” in senso tradizionale; Ermione invece si appropria dell’appellativo uxor, con immediato rimando alla liceità del legame con Oreste. Due personalità differenti, due mogli differenti: a noi il compito di interpretarne il carattere studiandone le parole, specchio della loro interiorità.
Per Deianira, è soprattutto nel finale della lettera che son presenti piccoli segnali dell’affetto della donna nei confronti del marito:
Ei mihi! Quid feci? quo me furor egit amantem? (her. 9, 145)
La lettera volge al termine. Nei versi immediatamente precedenti, Deianira ha dichiarato che le è giunta la notizia della morte di Ercole, provocata dal veleno di cui è impregnata la veste che gli ha mandato (v. 143-144 … Scribenti nuntia venit / fama, virum tunicae tabe perire meae). Si tratta di un punto di svolta nello sviluppo della lettera. Da questo punto in poi, in effetti, la donna non farà altro che domandarsi, con un vero e proprio ritornello, cosa aspetti a morire. Sconvolta dalla notizia della morte del marito, Deianira lascia che l’amore nei confronti del suo uomo, per la prima volta, traspaia dalle sue parole definendosi amans. È necessario tuttavia analizzare, più approfonditamente, il verso citato. Anche se la sovrapposizione tra i termini furor e amantem contribuisce a situare l’espressione nel campo semantico dell’amore come follia e a connotare così il comportamento di un’eroina innamorata del suo uomo, resta il fatto che Deianira abbia commesso un ‘tragico’ ma involontario errore e che, dunque, la sua follia abbia ben poco a che fare con il furor dell’elegia amorosa. Lascia esterrefatti che l’eroina, nonostante sostenga di non aver volontariamente ucciso Ercole (v. 159-160), dichiari di esser stata mossa, nel suo gesto, dal furor. La contraddizione è evidente: Ovidio, in questo frangente, è animato, come spesso accade, dall’obiettivo di considerare un personaggio mitico in tutta la sua ‘carriera’, in tutte le sue attestazioni e intende creare un parallelismo tra Deianira e Ercole, ovvero tra la Deianira delle Trachinie di Sofocle e l’Ercole descritto da Euripide nell’omonima tragedia. In questo senso, rappresentare Deianira animata dal furor equivale a paragonarla a chi, furens per eccellenza, ha fatto strage dell’intera sua famiglia, Ercole, per l’appunto. Esiste d’altronde un dato incontrovertibile a sostegno di quanto ipotizzato: nell’Eracle di Euripide, l’eroe, reduce dall’omicidio della moglie e dei figli, si esprime, rivolgendosi ad Anfitrione, proprio come, al momento della notizia della morte del marito, si esprime Deianira in her. 9. Significativi, in tal senso, sono i versi 1136 e 1146-1147 tratti dalla tragedia euripidea:
τί φήις; τί δράσας; ὦ κάκ’ ἀγγέλλων πάτερ;
οἴμοι· τί δῆτα φείδομαι ψυχῆς ἐμῆς
τῶν φιλτάτων μοι γενόμενος παίδων φονεύς
I richiami di her. 9 al testo greco sono evidenti. Il τί δράσας di Ercole del verso 1136 si rilette perfettamente in Quid feci? del v. 145 del testo ovidiano. Bisogna segnalare, inoltre, che già Ercole si chiedeva perché conservare la propria vita dopo essere diventato l’assassino dei figli (v. 1146, τί δῆτα φείδομαι ψυχῆς ἐμῆς), in maniera simile a quanto fa, ripetutamente, la moglie Deianira in her. 9, una volta riconosciutasi responsabile della morte dell’eroe (v. 146; v. 152; v. 158; v. 164; Impia quid dubitas Deianira mori?).
Un’ ultima attestazione della fedeltà di Deianira nei confronti di Ercole sembra poter essere rintracciata nei versi conclusivi della lettera:
Iamque vale, seniorque pater germanaque Gorge,
et patria et patriae frater adempte tuae,
et tu lux oculis hodierna novissima nostris,
virque – sed o possis ! – et puer Hylle, vale! (her. 9, 165-168)
Appena prima di suicidarsi, incapace di sopportare la consapevolezza di aver causato la morte del marito, nella chiusa dell’epistola, Deianira si preoccupa di giurare di non aver deliberatamente attentato alla vita di Ercole (v. 159-160 Deprecor hoc unum per iura secerrima lecti, / ne videar fatis insidiata tuis). Congedandosi dai propri cari, Deianira si rivolge alla sorella Gorge, alla patria, al fratello ad essa strappato, all’ultima luce del giorno. Infine, nell’ultimo verso, la donna ripensa a Eracle, che avrebbe preferito, nonostante tutto, potesse star bene, e al piccolo Illo. Questo stupisce? Affatto! Deianira ha riposto il significato della sua esistenza nel ruolo di uxor. Ecco perché il verso conclusivo dell’epistola vede la donna rivolgersi proprio al marito e al figlio. È nella sua natura di coniunx e mater che si condensa il senso del vivere di Deianira che, sul punto di esalare l’ultimo respiro, a Ercole e a Illo offre il saluto per ultimi, come a voler sancire la perpetuazione del legame con loro anche post mortem. Vir è da intendersi come sposo: non è un homo qualsiasi che le ultime preghiere di Deianira raggiungono, ma suo marito, il suo Vir, Ercole.
La Deianira ovidiana, dunque, è austera e severa matrona romana, sempre restia a esprimere a chiare lettere il proprio attaccamento all’amato.