di Carmela Moretti
Se volessimo racchiudere in una sola espressione l’articolato mondo dell’artista Antonio Ligabue potremmo dire “primitivo nella vita come nell’arte”. È una creatura che richiama immediatamente alla mente il buon selvaggio di Rousseau: un essere quasi bestiale, governato da impulsi animaleschi, ma proprio per questo ancestrale, puro, non contaminato dalla società.
Presso Palazzo Pallavicini – uno dei tanti meravigliosi contenitori culturali della città di Bologna – è in allestimento fino a febbraio 2025 una mostra che rende omaggio a questo artista e alla sua “semplicità complessa”. Vi sono esposte oltre 120 opere, che rappresentano un’occasione imperdibile per provare a entrare in un contatto più diretto con la psiche tormentata di quest’uomo e con la sua peculiare dimensione artistica.
È risaputo che la vita di Ligabue fosse un concentrato di infelicità, solitudine, disagio psicologico ed estrema povertà. Dopo l’espulsione dalla Svizzera, arrivò tutto solo a Guartieri, una cittadina in provincia di Reggio Emilia. Cominciò qui la sua vita da alienato nella bassa reggiana, che lo portò più volte a essere internato in una clinica psichiatrica. Gli abitanti di Gualtieri lo chiamavano “Toni al mat” (Toni il matto) e guardavano con molta diffidenza a questo individuo così strampalato. Nei fatti, però, fu proprio il popolo – e molto prima della critica – a comprendere in maniera intuitiva la genialità celata dietro la follia. Per molto tempo Ligabue visse di ciò che la gente gli dava, talvolta poche lire o soltanto una minestra, in cambio di un suo disegno. Oltre all’arte, a confortarlo c’era soltanto il paesaggio del Po e la sua straordinaria biodiversità.
Tutto questo mondo si riversa nelle sue opere, realizzate con una tecnica istintiva e audace: sono pennellate veloci, decise, dai colori brillanti, con grande attenzione ai dettagli.
Tra i soggetti privilegiati vi sono scene di vita contadina, come immagine di quella semplicità che egli stesso sentiva di serbare nel suo animo; oppure animali feroci, simbolo della difficile lotta per la sopravvivenza. Un’altra parte importante della sua produzione – e quindi, dell’esposizione in questione – è costituita dagli autoritratti. È lì, a parere di chi vi scrive, che c’è tutto di Ligabue. Ne ha realizzati tanti e sono tutti carichi di un’incredibile intensità.
Allora, prestatevi a un gioco: provate a mettervi di fronte a un suo autoritratto. L’artista è posizionato di tre quarti, guarda lo spettatore di sbieco, ha un’espressione di evidente circospezione. Non sembra anche a voi che vi dica: “Ma sì, guarda, guarda pure! Puoi provarci quanto vuoi, ma non capirai mai fino in fondo”?
Il punto è proprio questo e diventa ancora più chiaro visitando questa mostra. Di Ligabue possiamo dire e scrivere tanto: naif, impressionista, autodidatta, folle, genio. La verità, invece, è soltanto una.
L’artista di Gualtieri resta e resterà per sempre una figura sfuggente.