di Marco Zappacosta
Un calcolo che appassiona i matematici è determinare il numero di possibilità che si possono verificare in una partita di scacchi. La risposta a tal quesito sembra impossibile: troppe sono le varianti e le mosse che si possono attuare, ma sicuramente meno di quelle che si possono creare al di qua della scacchiera, nella vita reale.
Non sorprende, quindi, se Ben Harmon, la protagonista della serie televisiva La regina degli scacchi, ammetta di trovarsi a maggior agio in quelle 64 caselle, un mondo prevedibile e che lei può dominare.
Proprio questa miniserie è tra le più viste in questo ultimo mese su Netflix: tratta dal romanzo del 1983 The queen’s gambit di Walter Tevis (autore anche de Lo spaccone e Il colore dei soldi), deve il suo nome, cambiato nella distribuzione italiana, a una delle aperture degli scacchi, il gambetto di donna.
La storia è ambientata negli Stati Uniti tra la metà degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta e ha come protagonista la citata Ben Harmon, interpretata da Anya Taylor-Joy (già nota per un ruolo di comprimaria in Peaky Blinders e il ruolo da coprotagonista in Split di Shyamalan), una ragazza con un passato problematico che, dotata di una eccellente logica, primeggia nel gioco degli scacchi. La giovane Ben Harmon è, quindi, protagonista di una escalation che la porta da essere una semplice giocatrice, che muove le sue prime mosse sulla scacchiera in un sottoscala e in piccoli tornei di provincia, fino a poter sfidare i migliori scacchisti mondiali.
La sfida, però, non è soltanto tra le 64 caselle: in un periodo in cui questo gioco era una prerogativa maschile, una giovane ragazza che batte con disarmante facilità schiere di avversari uomini può finalmente abbattere il pregiudizio secondo cui le donne non possano tranquillamente giocare e, addirittura, vincere.
In tal senso La regina degli scacchi si inserisce perfettamente in quella serie di opere che trattano, in maniera più o meno diretta, la lotta per i pari diritti e per l’emancipazione femminile. Essendo ambientato tra gli anni Cinquanta e Sessanta, non possono mancare, direi prevedibilmente, i riferimenti alla Guerra fredda: il mondo, nella sua complessità e nella sua grandezza, è quindi ridotto in una scacchiera, in cui vince chi riesce per primo, non senza rischi, cattura i pezzi del proprio avversario, fino ad arrivare al re. In questo gioco, però, gli sfidanti sono a loro volta delle semplici pedine in mano a giocatori più importanti di loro, il blocco sovietico e il blocco statunitense.
La sfida è anche quella tra Ben Harmon e la sua dipendenza dagli piscofarmaci e dall’alcol che minano la sua salute ma che, al tempo stesso, le permettono di vincere.
Elogiato dalla critica e dagli appassionati del gioco per la veridicità delle sfide raccontate, è divenuto molto popolare (da alcune statistiche risulta che la vendita di scacchi ultimamente sia notevolmente aumentata).
La regina degli scacchi ha, però, ricevuto delle critiche: perché usare un personaggio di fantasia se nella realtà esistono davvero delle scacchiste con delle vite che, seppur riadattate, potrebbero essere portate sullo schermo?
Considerati il successo e la novità che comunque rappresenta nel mondo delle serie televisive, Ben Harmon, con gli occhi magnetici di Anya Taylor-Joy, rimarrà sicuramente tra i personaggi televisivi più amati. Alcune scene, come quella in cui la protagonista ipotizza le mosse delle varie pedine sul soffitto, sono già entrate nell’immaginario collettivo.
Infine, per chi dovesse amare questo genere, consiglio un film del 2015 con protagonisti Tobey Maguire e Liev Schreiber, La grande partita: la vera storia dell’incontro del secolo, come poi è divenuto noto, tra lo statunitense Bobby Fisher e il sovietico Boris Spassky.
Ancora una volta tra le caselle della scacchiera passa la Guerra fredda.
Interessante lettura della serie dalla quale sono stata attratta anch’io, pur non essendo appassionata di serie tv, vuoi per età che per propensione.
Eppure anche a me attrae il livello della sfida sottolineato. Pur non conoscendo a fondo il gioco degli scacchi, se posso, aggiungo un livello di sfida: quello interiore della protagonista con se stessa, le cui mosse vincenti sono frutto non di moralismi soffocanti, ma di libere scelte che, pur tenendo conto di tante, studiate, variabili possibili, alla fine rispondono e conducono alla propria responsabilità difronte alla necessità di rispondere alla ‘mossa’ di un altro.
Proprio come si sfila dalle sue responsabilità di dare risposte, la figura maschile, padre e marito, che giustifica col consueto colpevolizzare chi non ha saputo o voluto amare.
La vittoria è conquistare il proprio re interiore, ascoltando, guardando e analizzando la domanda/mossa che ci interpella.