LA MATTINA DOPO, di Mario Calabresi, Mondadori, 2019

di Dino Cassone

Leggendo le pagine dell’ultimo notevole libro di Mario Calabresi, “La mattina dopo”, si avverte una lieve brezza di nostalgia che diventa piano piano un vento forte, poi burrasca e al termine un uragano di dolore. Il dolore del giorno dopo – a una perdita di un affetto caro, alla perdita del lavoro, al pensionamento o a una partenza – che aggredisce «quel risveglio che per un istante è normale».

L’ex direttore della “Stampa” e di “Repubblica” si districa in questo personale purgatorio, raccontando una serie di storie: quella di Roberto Toscano, consigliere dell’ambasciata italiana a Santiago; di Omero Ciani, inviato di “Repubblica” in Spagna e America Latina; di Daniela che è rimasta paralizzata a seguito di un incidente; di Damiano, un medico sopravvissuto a un disastro aereo in Africa; dello scrittore Yavuz Baydar, fuggito dal regime di Erdogan; di Mira Bucci, superstite dei lager nazisti che per una vita ha cercato le sue due figlie. Ciascuno alla ricerca spasmodica di ritrovarsi e ritrovare un senso alle proprie giornate «quando i conti sono regolati, quando ti fai una ragione delle cose e puoi provare a guardare avanti, anche se quel davanti magari è molto diverso da quello che avevi immaginato».

Ma è nel racconto di frammenti della storia della sua famiglia che Calabresi abbandona la sua penna, scrupolosa e fluida, di eccellente giornalista, e si cimenta in quella di romanziere. Splendida la figura di sua nonna, la cui mattina dopo «è durata cent’anni. Un rimpianto lungo un secolo» e alla quale il giornalista deve una promessa strappata sul letto di morte. Calabresi acquista prima parte di un appezzamento di terra che è l’origine della sua casata, “Il Bricco delle Ciliegie”, poi ricompone con le tessere mancanti il puzzle della storia famigliare, fino a quando «tutto è andato a posto, la storia è ricostruita, la terra è tornata a casa».

Pagine intense come quelle dedicate al padre adottivo Tonino Milite (già protagonista di Spingendo la notte più in là) o a sua madre Gemma, maestra sublime del perdono che consiglia al proprio figlio, e magari a ciascuno di noi, di «Non guardare al passato con rabbia. Non si può cambiare ciò che è successo, bisogna farci pace. E prima lo si fa meglio è». E forte di questo prezioso e arduo insegnamento Calabresi decide di andare a incontrare, a distanza di quarantasette anni, l’assassino di suo padre Luigi. Parte così per Parigi per guardare dritto negli occhi Giorgio Pietrostefani e chiudere un cerchio.

«Così sono andato a incontrare quell’uomo che non aveva più nulla dei suoi 20 anni. Dovevo farlo. Adesso, il mio giorno dopo era finito davvero».

 

 

 

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