di Dino Cassone
Leggendo le pagine dell’ultimo notevole libro di Mario Calabresi, “La mattina dopo”, si avverte una lieve brezza di nostalgia che diventa piano piano un vento forte, poi burrasca e al termine un uragano di dolore. Il dolore del giorno dopo – a una perdita di un affetto caro, alla perdita del lavoro, al pensionamento o a una partenza – che aggredisce «quel risveglio che per un istante è normale».
L’ex direttore della “Stampa” e di “Repubblica” si districa in questo personale purgatorio, raccontando una serie di storie: quella di Roberto Toscano, consigliere dell’ambasciata italiana a Santiago; di Omero Ciani, inviato di “Repubblica” in Spagna e America Latina; di Daniela che è rimasta paralizzata a seguito di un incidente; di Damiano, un medico sopravvissuto a un disastro aereo in Africa; dello scrittore Yavuz Baydar, fuggito dal regime di Erdogan; di Mira Bucci, superstite dei lager nazisti che per una vita ha cercato le sue due figlie. Ciascuno alla ricerca spasmodica di ritrovarsi e ritrovare un senso alle proprie giornate «quando i conti sono regolati, quando ti fai una ragione delle cose e puoi provare a guardare avanti, anche se quel davanti magari è molto diverso da quello che avevi immaginato».
Ma è nel racconto di frammenti della storia della sua famiglia che Calabresi abbandona la sua penna, scrupolosa e fluida, di eccellente giornalista, e si cimenta in quella di romanziere. Splendida la figura di sua nonna, la cui mattina dopo «è durata cent’anni. Un rimpianto lungo un secolo» e alla quale il giornalista deve una promessa strappata sul letto di morte. Calabresi acquista prima parte di un appezzamento di terra che è l’origine della sua casata, “Il Bricco delle Ciliegie”, poi ricompone con le tessere mancanti il puzzle della storia famigliare, fino a quando «tutto è andato a posto, la storia è ricostruita, la terra è tornata a casa».
Pagine intense come quelle dedicate al padre adottivo Tonino Milite (già protagonista di Spingendo la notte più in là) o a sua madre Gemma, maestra sublime del perdono che consiglia al proprio figlio, e magari a ciascuno di noi, di «Non guardare al passato con rabbia. Non si può cambiare ciò che è successo, bisogna farci pace. E prima lo si fa meglio è». E forte di questo prezioso e arduo insegnamento Calabresi decide di andare a incontrare, a distanza di quarantasette anni, l’assassino di suo padre Luigi. Parte così per Parigi per guardare dritto negli occhi Giorgio Pietrostefani e chiudere un cerchio.
«Così sono andato a incontrare quell’uomo che non aveva più nulla dei suoi 20 anni. Dovevo farlo. Adesso, il mio giorno dopo era finito davvero».