LA CASA ROSSA: IL DOLORE UMANO HA IL COLORE DELLA PORPORA

di Francesco Monteleone

(In memoria di Valentina Cortese)

La Casa Rossa è un luogo spettrale che trasuda dolore e oppressione. Il suo colore esterno, di un rosso vivido e caldo, contrasta nettamente con quello che non può che essere definito il suo “scheletro” interno: una serie di gironi danteschi composti da stanze gelide, di quel gelo che non offre scampo, difficile da dimenticare.

La storia della Casa Rossa è complessa e variegata: nacque verso la fine dell’800, per donazione di Don Francesco Gigante, sacerdote non proprio esemplare di Alberobello, il quale, alla fine dei suoi giorni, decise di donare tutto il suo patrimonio (masserie, terre, case) per fondare un Istituto Agrario, forse al fine di mettere a tacere i sensi di colpa che, a detta dei beninformati, erano piuttosto pressanti. Così, su una salubre collina di Alberobello in contrada Albero della Croce, tra prati verdi e aria pulita, fu fondato l’“Istituto Agrario F. Gigante”.   Agli inizi del 1940, però, le attività didattiche dell’Istituto vennero trasferite in paese, “per avvicinare più alunni alla scuola” si disse, ma forse solo per “mascherare” il vero motivo, e cioè che Mussolini aveva scelto di adibire quel luogo a “campo di smistamento” per  internati civili (cittadini di stati nemici ed ebrei, contrari al regime totalitario tedesco); l’ubicazione del fabbricato, infatti, lontano da luoghi di operazioni militari, favoriva un più comodo e facile controllo da parte del regime fascista. Come ci ricorda il Professor Francesto Terzulli, storico ed autore del libro “La casa rossa” (Ed. Mursia, 2003), l’edificio ospitò, tra il 1940 e il 1943, a fasi alterne, più di 2.000 internati, la maggior parte dei quali era composta da professionisti (ingegneri, architetti, artisti); molti di essi si procuravano cibo e abiti proprio grazie alla loro abilità, eseguendo lavori artistici ed opere manuali nelle case più ricche del noto “paese dei trulli”.

Celebre e di forte valenza simbolica è rimasto il valzer dal titolo beffardo “Felicità”, composto da Charles Abeles (musicista svizzero internato alla Masseria Gigante) proprio al pianoforte della casa di Francesco Nardone (ricco signore di Alberobello appassionato d’arte), di cui, in seguito, è stata eseguita un’incisione ad opera della Scuola di Musica del paese; il 13 gennaio 2007, presso la sala consiliare del Comune di Alberobello, in occasione dell’incontro “Il filo della memoria”, il nipote di Abeles, Peter Koppiz, ha ricevuto in dono da un’erede della famiglia Nardone lo spartito autografo del brano musicale in questione.

 

Esiste, al piano terra dell’edificio, una piccola cappella molto ben conservata, sui cui muri ancora si possono ammirare pregevoli affreschi raffiguranti immagini sacre: questi affreschi vengono erroneamente addebitati ad artisti ebrei, ma in realtà, grazie a recenti ricerche e studi, è stato possibile datarli; essi risultano risalenti al 1948, quando la Casa Rossa ormai non ospitava più internati ebrei, ed inoltre è noto che la cultura ebraica non concepisce l’esaltazione di immagini sacre.

Come già precisato, la Casa Rossa non può essere considerato un vero e proprio campo di concentramento, bensì solo un campo di “smistamento”, dove comunque gli internati vivevano una condizione di estremo disagio essendo deprivati di acqua e luce, ma anche di beni di primaria necessità, nonché della libertà e della dignità umana. Molti di essi furono poi deportati nei campi di sterminio tedeschi grazie agli elenchi forniti dalla polizia fascista ai gerarchi delle “SS”.

In seguito, la Casa Rossa ha indossato molte altre vesti, tutte decisamente lontane dal concetto di felicità o di pietà umana, e camminando lungo i suoi corridoi sembra quasi di avvertirlo, questo senso di angoscia rimasto nelle viscere delle pareti umide: è stato carcere minorile, colonia del confino politico per ex fascisti, centro di accoglienza per profughi di guerra, per ebrei scampati ai campi di sterminio, per orfani di guerra, ed inoltre, tra il 1946 e il 1947, vi furono trasferite da Fossoli oltre 100 donne di diverse nazionalità (slave, greche, albanesi, ungheresi) che, dopo la liberazione, furono trovate prive di documenti d’identità, e dunque ritenute “scomode”. Questo episodio ebbe grande rilevanza all’epoca dei fatti, tanto da ispirare il film drammatico di Geza von Radvany “Donne senza nome. Le indesiderabili” (1949), interpretato, tra gli altri, da attori del calibro di Gino Cervi, Valentina Cortese – recentemente scomparsa – e Simone Simon, e girato completamente nelle campagne di Alberobello: questa scelta fu dettata dall’esigenza di mettere in evidenza ambientazioni “reali” (tipica del cinema neorealista).

 

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