di Gabriele Colella
L’unica Eroide a non esser stata menzionata nei nostri interventi precedenti è quella composta da Ipermestra e indirizzata al marito Linceo (her. 14). Il motivo? L’epistola in questione è l’unica, tra le lettere scritte dalle coniuges, a mancare completamente dell’elemento amoroso. Chi scrive la missiva, infatti, non si duole, innamorata, perché distante dal marito (come già Penelope e tutte le altre mogli che abbiamo imparato a conoscere), ma, anzi, perché una sorte avversa, che ha ereditato dall’antenata Io, si riverbera contro di lei. Chi scrive la missiva non è disposta – come ci racconta – a uccidere il marito perché a lui legata da un irrefrenabile sentimento d’affetto, ma perché frenata dalla paura di compiere un gesto tanto drastico. Nessuna professione di lealtà da parte della donna rivolta al marito, nessuna accorata promessa di ritorno da parte dell’uomo: nulla, nella quattordicesima epistola, sembra rievocare in noi lettori l’impressione che sia una lettera d’amore.
Quale allora il senso del vivere di Ipermestra? Quale il valore cui la coniunx si consacra, se non quello dell’amore? La pietas (un misto di senso del dovere e di rispetto) che la donna nutre nei confronti di Linceo, alla quale sarà fedele per sempre. Il parallelismo con le restanti lettere di eroine è evidente: come le altre donne del mito non sono disposte a tradire i loro uomini, così Ipermestra non è disposta ad abdicare al valore a lei più caro, alla devozione nei confronti del marito.
Ma non indugiamo oltre. Lasciate che sottoponga alla vostra attenzione gli elementi che, in her. 14, sostengono l’idea del mancato colorito amoroso dell’Eroide e della fedeltà che la protagonista dimostra nei confronti della propria pietas.
Cominciamo.
Bisogna tener conto, innanzitutto, di un dato prettamente numerico: l’alta frequenza del termine pietas e derivati in her. 14 (che già di per sé può costituire una prova schiacciante dell’attaccamento di Ipermestra alla sua connaturata compassione). Pietas, in effetti, nella sua forma nominale e aggettivale, ricorre non meno di sette volte nel corso dei 134 versi del componimento latino. Rarissime sono invece le occorrenze del termine nelle restanti lettere della raccolta ovidiana.
In secondo luogo, occorre sottolineare lo spazio marginale occupato da Linceo nell’epistola: il fatto che l’uomo sia poco menzionato è anch’esso indice dell’assenza del tratto amoroso di her. 14. Non solo Linceo è scarsamente evocato ma, nelle poche allusioni presenti, non viene quasi mai fatto cenno alla sua essenza di marito della protagonista. Si prendano in considerazione, a riguardo, i versi incipitari dell’epistola
Mittit Hypermestra de tot modo fratribus uni:
cetera nuptarum crimine turba iacet. (her. 14, 1-2)
In questo modo la coniunx si identifica e chiarisce a chi stia rivolgendo la propria lettera: soltanto ad uno dei suoi fratri, cugini. La donna non specifica che il destinatario della missiva sia suo marito né tanto meno che si tratti proprio di Linceo. Il richiamo all’ incipit di her. 8 è immediato:
Adloquor Hermione nuper fratremque virumque,
nunc fratrem: nomen coniugis alter habet (her. 8, 1-2)
Come Ipermestra e Linceo, anche Ermione e Oreste sono cugini tra loro. Ermione, però, a differenza di Ipermestra, al destinatario della sua lettera si riferisce definendolo non solo frater ma anche vir (marito), focalizzandosi quindi non solo sul rapporto genealogico ma anche su quello coniugale che la lega ad Oreste. Si potrebbe obiettare affermando che, nel caso di her. 8, il rivolgersi di Ermione a Oreste anche in quanto vir serva, a chi scrive la lettera, per sostenere che nomen coniugis alter habet; serva, vale a dire, alla coniunx per riferirsi a Pirro e per richiamare a sé il marito che Pirro ha, con la forza, sostituito. Questo è, senz’ombra di dubbio, vero. Ma è altresì vero che, se anche in her. 14 Ipermestra nel primo verso non si riferisce a Linceo come suo uomo perché non animata dalla stessa necessità di Ermione, resta il fatto che raramente la donna nomini Linceo e altrettanto raramente faccia riferimento a lui come suo sposo. Soltanto in due occorrenze, infatti, Ipermestra si rivolge al destinatario come tale; soltanto una volta, invece, Linceo è chiamato per nome (v. 123). E anche quando l’eroina apostrofa Linceo non s’evince affatto il trasporto emotivo che connota la scrittura delle altre eroine. Non resta che osservare con più attenzione queste occorrenze. La prima:
Me pater igne licet, quem non violavimus, urat,
…
…
ut, qua non cecidit vir nece, nupta cadam –
Non tamen, ut dicant morientia «paenitet» ora,
efficet: non est, quam piget esse piam. (her. 14, 9,12-14)
Sono versi tratti dal preambolo di her. 14. Prima di addentrarsi nella narrazione della notte in cui lei e le sorelle avrebbe dovuto, obbligate dal padre, uccidere i rispettivi cugini nonché mariti, Ipermestra trae le conclusioni del proprio operato e ribadisce a più riprese di aver agito secondo pietas della quale, nonostante la prigionia a cui il padre la sta costringendo per non aver ubbidito alle sue imposizioni, non si pente. Nemmeno il dolore fisico che Danao potrebbe procurarle sarebbe sufficiente per farla pentire del suo atto pietoso. Ciò che in questi versi deve maggiormente attirare l’attenzione, è il fatto che Linceo sia apostrofato come vir (v. 12). Che il termine stia per maritus? Difficile crederlo. Linceo per Ipermestra non è che l’uomo, al posto del quale, la donna abbia scelto di sacrificarsi.
Si consideri il secondo caso in cui Ipermestra si riferisce a Linceo definendolo marito:
Quam tu caede putes fungi potuisse mariti,
scribere de facta non sibi caede timet. (her. 14, 19-20)
Immediatamente prima di inaugurare la sezione diegetica, Ipermestra ribadisce la sua incapacità di compiere una strage. La funzione assolta dal termine maritus è tutt’altro che decisiva: sembra che la pietosa astensione di Ipermestra dal comando paterno non sia dipesa dal fatto che si trattasse di uccidere proprio Linceo; si è portati anzi a pensare che l’atteggiamento della protagonista sarebbe stato pietoso allo stesso modo nei confronti di chiunque avesse per lei assolto il ruolo di maritus. È tu, invece, a dover meritare qualche riflessione in più. Chi è davvero questo tu a cui la scrivente si sta riferendo? Perché dovrebbe essere suo marito, tra tutte le persone, a pensare che la donna possa aver commesso un omicidio? La presenza di mariti nello stesso verso non rende d’altronde improbabile che tu si riferisca al figlio di Egitto? È chiaro quel tu è genericamente rivolto a un ipotetico lettore della lettera, non certo alludente a Linceo.
Analizziamo, infine, l’unica occorrenza del nome Linceo in tutto il testo della lettera:
At tu, siqua piae, Lynceu, tibi cura sororis,
quaeque tibi tribui munera, dignus habes,
vel fer opem, vel dede neci … (her. 14, 123-125)
Conclusa la lunga sezione diegetica, Ipermestra torna a considerare la propria infelice condizione. È degno di nota il fatto che l’eroina si definisca, in un punto così delicato dell’epistola, soror di Linceo e non coniunx (come Penelope in her. 1, 84) o uxor (come Ermione in her. 8, 122) insistendo così sul legame di sangue che la lega a Linceo anziché sulla loro relazione matrimoniale. Ma c’è di più: la possibilità che la donna non si stia rivolgendo al marito in quanto animata dall’amore che serba nei suoi confronti, è supportata non solo dal suo definirsi soror ma, anche e soprattutto, dall’evidenza che non tutti i manoscritti e commentatori del testo ovidiano accolgono la lectio Lynceu. Si è pensato che Ovidio avesse scritto line o, addirittura, remanet in luogo del nome Lynceu. Lungi dal poter stabilire in questa sede la versione originale del testo ovidiano, il dubbio che Ipermestra, nel corso della sua lettera, non scriva mai il nome del marito, rimane.
Accantoniamo dunque la questione filologica e torniamo al testo: la donna prospetta due sole alternative: che il marito le porti il suo aiuto o che le dia la morte. Non si tratta, come fanno Ermione (in her. 8) o Giasone (in her. 12), di contrapporre le due prospettive esistenziali di morire o rimanere per sempre con il coniuge amato. Ipermestra anzi non può giurare di volere rimanere con Linceo in perpetuum perché materialmente non può farlo: al momento della compilazione della lettera, infatti, si immagina che l’eroina sia in catene, costretta dal padre alla prigionia. Soltanto se liberata dal suo uomo, Ipermestra potrà tornare tra le braccia di Linceo. Lo scarto tra questa e le altre due lettere di eroine in questione, è chiaro: che la donna implori Linceo di raggiungerla e portale aiuto è condizione necessaria e sufficiente perché la coniunx possa venir liberata e, solo a quel punto, vivere per sempre accanto al marito. Linceo è, in questo senso, lo ‘strumento’ attraverso il quale la protagonista può emanciparsi dal destino di sofferenza che l’attanaglia. Fatte queste debite distinzioni, risulta evidente che il vero termine di paragone, in questo caso, non è tanto costituto da her. 8 e her. 12 ma da her. 11, la lettera scritta da Canace a Macareo. Sorella e fratello, Canace e Macareo sono succubi, similmente a quanto accade in her. 14, dell’ira del genitore, Eolo. La differenza risiede nel fatto che l’eroina di her. 11, disperando della propria sorte, obbedisce al volere del padre e si dà la morte come da lui richiesto. Così Canace adempie alla pietas filiale (di cui massimo exemplum è l’Enea virgiliano). Ipermestra, invece, risponde ad un altro tipo di pietas, quella coniugale che deve a Linceo. Per questo disobbedisce al volere paterno, essere pia al quale avrebbe significato uccidere il marito. In questo senso, per la coniunx, ribadire al verso 123, per l’ennesima volta, di essere pia (At tu, siqua piae, Lynceu, tibi cura sororis) è un ultimo disperato grido di difesa della propria condotta e non un attacco nei confronti di Linceo che, seppur poco considerato in tutta l’epistola, non è affatto disprezzato dalla moglie se è vero che Ipermestra ha preferito patire essa stessa piuttosto che dargli la morte e ha preferito alla pietas filiale (tipica della tradizione epica), quella coniugale (propria, invece, del mondo elegiaco). Questo non fa di lei un’empia: Ipermestra è pia in senso diverso da quello tradizionale.