IO NEL PENSIER MI FINGO

di Trifone Gargano

Si è appena concluso il bi-centenario de L’infinito di Giacomo Leopardi, che, come si sa, fu composto, molto probabilmente, alla fine dell’estate del 1819. L’occasione non è stata soltanto celebrativa, ma ha dato testimonianza concreta, al di là delle ricorrenze fissate dagli anniversari, della natura pop di questo Classico della letteratura italiana. Della sua fertilità, del suo essere, cioè, ancora oggi, presenza attiva, in molte arti contemporanee: dal fumetto, al cinema, alla televisione, al romanzo, alla poesia, e, soprattutto, alla canzone pop italiana.

Giacomo Leopardi

Per avere una piccola idea di questa presenza pop di Leopardi e della sua opera, si ascoltino, almeno, le seguenti canzoni:

di Gabry Ponte, A Silvia [https://www.youtube.com/watch?v=G3ag_jah-as]

di Pierdavide Carone, Il twist del Sud [https://www.youtube.com/watch?v=njIMUQerSMY]

di Roberto Vecchioni, Il violinista sul tetto [https://www.youtube.com/watch?v=FstAY3y_VDY]

Che Leopardi, al pari di Dante Alighieri, sia entrato nell’immaginario collettivo popolare, lo dimostra anche il fatto che, come per la Divina Commedia, anche molti suoi versi sono diventati espressioni proverbiali, modi di dire (e di pensare). Ecco alcuni esempi:

  • studio matto e disperatissimo
  • passata è la tempesta
  • che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai
  • natio borgo selvaggio
  • …e naufragar m’è dolce in questo mare
  • chi ha coraggio di ridere, è padrone del mondo

Dunque, Leopardi come autentico Classico pop, della nostra tradizione letteraria, sociale e civile, attraverso il ri-uso del lessico, di situazioni, di personaggi, di tematiche, di riflessioni, di pensieri, di espressioni. Presenza che suggerisce, specie oggi, in piena tempesta coronavirus, a ciascuno di noi, la necessità di non arrendersi mai, dinanzi alle avversità, al destino (dinanzi alla Natura, matrigna, avrebbe scritto Leopardi), al dolore; e di tenere, piuttosto, sempre un atteggiamento vigile e titanico, di sfida e di lotta. Tendere alla felicità, e cercare un senso, un infinito senso nelle cose quotidiane.

Ecco, dunque, la ragione, oggi, al tempo del coronavirus, per rileggere questo idillio (e altri) di Leopardi, ossessionati come siamo dalla paura del contagio, che sta trasformando la vita di ciascuno di noi, sottraendoci il primo impulso (o istinto) tipico dell’umanità, e cioè lo stare in branco, vivere la socialità. Un percorso di educazione alla fragilità, come risposta forte al “distanziamento sociale”. Non una banale (e bugiarda) dichiarazione di forza. Quanto, piuttosto, un invito a tenere, sempre e in ogni caso, gli occhi aperti sul presente, per fissare il male, e per combatterlo.

Suggerisco, a riguardo, l’ascolto della canzone Controvento, di Arisa, come analoga forma di educazione alla fragilità, andando controvento

[https://www.youtube.com/watch?v=wPrKYs2iDKQ].

Scritto, probabilmente, nell’estate del 1819 (oppure, nell’autunno di quell’anno terribile, fatto di sofferenza e di disperazione), a soli ventun anni, e collocato da Leopardi, nell’edizione a stampa fiorentina del 1831 dei suoi Canti, come primo testo del gruppo dei cinque piccoli «idilli» (o sei, se si conteggia tra di essi anche il frammento Lo spavento notturno), L’infinito è un testo breve, appena 15 endecasillabi sciolti (non rimati). Al suo interno, la variazione e la modulazione delle pause sono ottenute grazie al sapiente montaggio degli endecasillabi (settenario e quinario, e/o viceversa), e alla presenza di enjambement. La sintassi è lineare (se non semplice). Un numero complessivo di versi decisamente anomalo: non è un sonetto (14 versi), e nemmeno una doppia ottava (16 versi). Struttura metrica fuori norma; eppure così potente ed evocativa.

In una pagina del mese di luglio del 1820 dello Zibaldone di pensieri, il diario che Leopardi tenne tra il 1817 e il 1832 (per un totale di ben 4526 pagine), facendo riferendo alle tematiche che aveva affrontate ne L’infinito, scriveva che, spesso, l’anima prova il «desiderio dell’infinito». In questi casi, incalzava Leopardi, in sostituzione della vista

«lavora l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale. L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario»

[Zibaldone, 171]

La fantasia e l’immaginazione, dunque, subentrano al reale, sostituiscono il reale, per colmare quel deficit di conoscenza che il reale determina (sotto forma di siepe o di albero, o di qualsiasi altro accidente). Il limite, dunque, può essere rappresentato sia da un impedimento fisico (la siepe, l’albero, ecc.), sia da un impedimento non fisico, come un pregiudizio, una malattia, la carcerazione, e così via. Ma, anche, da un qualcosa di impalpabile, come il coronavirus, e dalla fobia del contagio, che ci tiene tutti, da settimane, chiusi in casa. Ebbene, in simili circostanze, «il fantastico sottentra al reale». La fantasia, come si legge nel settimo verso dell’idillio, «io nel pensier mi fingo», sostituisce la realtà, e ci fa volare, pur restando a casa.

Ricordo con commozione, anche alla luce di quanto è accaduto successivamente, di aver sviluppato questo ragionamento, sulle diverse interpretazioni del concetto di limite (di siepe), leggendo e commentando L’infinito, verso la fine del 2019, a un centinaio di ospiti di una Casa Circondariale della Provincia di Bari. Ricordo, con grande commozione, ancora oggi, il silenzio, e i tanti occhi lucidi, in quell’auditorium, perché i presenti avevano percepito come autentiche quelle parole di Leopardi, avvertendole come proprie, indirizzate a ciascuno di loro, a ciascuno di noi.

Era finalmente chiaro, a tutti noi, che l’uomo supera i propri limiti sensoriali grazie all’immaginazione, capace di portarlo al di là della sua natura infelice (e limitata).

Mi piace concludere questo intervento, invitando a leggere una poesia poco nota di Leopardi, perché quasi del tutto assente dal canone scolastico leopardiano. Mi piace farlo perché la lettura di questo canto leopardiano riesce a dare forza, in questi giorni di paura collettiva sui nostri destini individuali e sociali, in quanto in esso Leopardi ci dice che, nella notte, anche quando la luna tramonta, e quindi tutto intorno è nero; ebbene, anche in quei momenti bui, dobbiamo avere fiducia e, dobbiamo coltivare la certezza che di lì a poco tornerà il sole, con la sua luce, e che illuminerà nuovamente le nostre vite.

Il tramonto della luna è frutto dell’estrema stagione creativa di Leopardi, quella del 1836. Il canto fu scritto, molto probabilmente, anche successivamente alla Ginestra, con gli ultimi versi che, forse, furono dettati a voce all’amico Ranieri, che li aggiunse di suo pugno sul manoscritto napoletano. Dunque, un testamento poetico, nel quale Leopardi rettifica il suo rapporto con la «luna», e con il «sole». Questi, infatti, nelle sue poesie, è sempre stato quasi del tutto assente; ovvero, con caratterizzazioni negative. Il sole di Leopardi, infatti, infuoca, incendia, bloccasaetta», si legge ne La vita solitaria). Il sole, in questi versi, è causa d’ogni male: di immobilismo (per la foglia, per l’erba, per l’onda, per l’augello); di mutismo (per la cicala, per la farfalla, per il loco); di dimenticanza («me stesso e il mondo obblio»); di estraneità («mi par che sciolte / giaccian le membra mie»). Tutto è male, dunque, sotto questo sole saettante del meriggio.

Al contrario, la luna di Leopardi è sempre stata confidente privilegiata (e amata). Per Leopardi, la luna è bianca, argentea, candida, vergine. Celeberrimi gli incipit che riguardano proprio la luna.  Moltissimi i testi nei quali egli contempla la luna, la osserva, la interroga, la invoca (uno per tutti: Canto notturno di un pastore errante dell’Asia).

Al pari della Ginestra, anche Il tramonto della luna può essere letto come un testamento. Un canto nel quale, a mo’ di bilancio, il poeta puntualizza alcune cose. In questa poesia, Leopardi rinuncia al consueto io-lirico, in favore della terza persona, quasi a fissare una distanza tra il testo, sé stesso e il lettore. La scrittura è oggettiva; e, per la prima volta, la luna è «figura» della giovinezza. Come la luna, infatti, anche la giovinezza «scende» e si «dilegua». Tutto resta indeterminato e sfumato, perfino il luogo dove la luna si sia dileguata. La luna scende, e una oscurità profonda e totale avvolge la terra. Buio assoluto. La luce del giorno non c’è ancora, e quella della luna è scomparsa. La luna come la giovinezza è tramontata, per sempre, e in modo irrevocabile.

Ma dal verso 51, fino al verso 62, ecco la (inusuale) sterzata, con l’annuncio dell’arrivo del sole:

Voi, collinette e piagge,
caduto lo splendor che all’occidente
inargentava della notte il velo,
orfane ancor gran tempo
non resterete, che dall’altra parte                              55
tosto vedrete il cielo
imbiancar novamente, e sorger l’alba:

alla qual poscia seguitando il sole,
e folgorando intorno
con sue fiamme possenti,                                           60
di lucidi torrenti
inonderà con voi gli eterei campi.

Con l’imminente arrivo dell’alba, il sole riporterà la luce nel mondo («imbiancar novamente», v. 57). Al di là della questione filologica, sulla autenticità dei versi finali (dal 63 al 68), Il tramonto della luna credo che possa ritenersi concluso al verso 62, con una riconciliazione tra Leopardi e il sole. Qui, infatti, per la prima (e unica) volta, non c’è più posto per il «demone meridiano». Qui, le fiamme del sole sono acque benefiche («lucidi torrenti»), che inondano di luce «gli eterei campi». Leopardi si congeda dalla poesia celebrando il sole.

Come personale congedo, invece, desidero lasciare al (mio) lettore l’indicazione di una canzone di Francesco Tricarico, Io sono Francesco, per la scanzonata e gioiosa presa in giro della crudeltà del mondo degli adulti (in questo caso, di una maestra che, con l’ostinata assegnazione di un compito scolastico, si rivela del tutto insensibile al dramma dell’alunno Francesco, che le confessa di non poter svolgere quel tema assegnato sul papà, perché lui, il papà, lo ha perso quando aveva solo 3 anni). La suggerisco anche per i riferimenti leopardiani che la canzone contiene: alla notte, al sole, alla sera, alla speranza, alle stelle, alla primavera, alla morte prematura, alla finzione poetica – «in quel vuoto io ho inventato un mondo» – scrive il cantautore, alla stessa maniera del giovane Leopardi, fingitore di mondi ne L’infinitoio nel pensier mi fingo») -, al monito finale, che invita a guardare «la luna», e a sperare.

Ecco il link per la canzone di Tricarico: https://www.youtube.com/watch?v=EPRwo0OMbQ8

Chi volesse leggere per intero il testo de L’infinito, e quello de Il tramonto della luna, potrebbe fare clic sui link:

https://it.wikisource.org/wiki/Canti_(Leopardi_-_Donati)/XII._L%27infinito

https://it.wikisource.org/wiki/Canti_(Leopardi_-_Donati)/XXXIII._Il_tramonto_della_luna

 

 

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