INSEGNARE LA LINGUA È IL PRIMO PASSO VERSO L’INTEGRAZIONE

di Carmela Moretti

Erano passati solo pochi giorni dagli attentati di Bruxelles, marzo 2016. Nel corso di un telegiornale belga (sfortunatamente non ricordo su quale canale),  l’inviata ebbe la geniale idea di intervistare un uomo di colore. Un cittadino belga a tutti gli effetti, chiaramente.

“Che cosa pensa dei flussi migratori?”, era pressoché la domanda della giornalista. “Basta, adesso è troppo. Tutta questa gente che arriva… Bisogna darci un taglio”, fu grossomodo la risposta del nero. Non potetti fare a meno di sorridere.

Il giorno dopo, raccontai l’episodio ad alcuni amici belgi a mo’ di barzelletta.

“Vedi, questo è un caso di perfetta integrazione”, sentenziarono.

Quando i migranti arrivano in un Paese, quest’ultimo ha due possibilità per interagire con loro: accoglierli, magari indossando la maschera del finto buonismo, per poi abbandonarli a sé stessi. Nella stragrande maggioranza dei casi, sprovvisti di qualsiasi strumento utile a inserirsi nel nuovo contesto, gli ospiti finiranno per delinquere.

La seconda possibilità è aiutarli a percorrere la strada dell’integrazione. È una scalata durissima come quella dell’Everest, ma che soddisfazione quando si è in cima alla vetta! Ci si può perfino imbattere in un congolese d’origine, che guarda di traverso i nuovi ospiti islamici, com’è capitato alla giornalista belga.

Il primo strumento che gli Stati civili mettono a disposizione degli immigrati è la conoscenza della lingua. In Belgio, Germania, Olanda, Danimarca, Svezia, Norvegia è così.

Conoscere la lingua e a cultura del Paese in cui si approda è fondamentale. È come trovarsi in mare aperto e poter contare almeno su un buon salvagente. Gli immigrati devono poter andare al Comune, telefonare in ospedale, fare la spesa e leggere un documento, esprimere le proprie richieste senza sentirsi smarriti o disperati.

Questa è la civiltà.

A Liegi, il Comune e la Provincia mettono a disposizione corsi di lingua francese gratuiti e tavole di conversazione. Per uno strano caso del destino, mi sono ritrovata a frequentarne uno al costo di 10 euro (giusto per coprire le spese delle fotocopie).

Eravamo un quindicina di donne: un’italiana (io), una cinese che partiva dall’abc, alcune congolesi e, per il resto, turche e iraniane.

Molte partecipanti al corso non erano nemmeno alfabetizzate. La docente – una cristiana convertita all’islamismo – ha dovuto avviare un programma specifico per insegnare a leggere e a scrivere, attraverso giochi e curiosità.

Allo studio della grammatica, frattanto, si intrecciavano storie bellissime. Storie di madri giovanissime o nonne affettuose; di donne innamorate dei propri uomini; di nostalgia del Paese lasciato; di speranza nel futuro. Quando entravo nella saletta, con tutti quei foulard gialli, rossi e azzurri, avevo la sensazione di rotolarmi in un prato di fiori coloratissimi e profumati: viole, tulipani e giacinti.

Insomma, tra la coniugazione del verbo essere e avere, la concordanza del participio passato e le simulazioni di conversazioni in francese, quelle donne imparavano ad affrontare tutte insieme la scalata dell’integrazione nel Paese in cui avevano scelto di vivere o erano capitate.

Ogni giorno si sentivano più sicure e meno sole, lo si leggeva chiaramente nei loro occhi. Erano, cioè, più integrate.

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