“IL TEMPO CHE CI VUOLE”, UN GRAN BEL FILM, CHE SA PARLARE A TUTTI

di Carmela Moretti

Vi farà passare dal riso alla commozione in un battito di ciglia. Vi disturberà tantissimo, ma poi vi prenderà per mano e vi porterà nel mondo sognante della settima arte. La sensazione sarà quella di essere su un’altalena col cuore ingenuo di un bambino e alla fine dell’esperienza scenderete dalla giostra appagati.

“Il tempo che ci vuole”, ultimo film di Francesca Comencini, presentato fuori Concorso alla 81esima Mostra del cinema di Venezia, ci è sembrato riuscito sia sul piano narrativo che sul piano registico.

È un’autobiografia dura e sincera, ma la Comencini schiva sapientemente il rischio di cadere in un eccesso di intimismo. Sa mantenersi in equilibrio tra vari aspetti come un funambolo su una corda tesa, e la sintesi è un’opera lucida e armoniosa in ogni sua parte.

Il film è un dialogo d’amore esclusivo tra la regista e suo padre Luigi Comencini. Vediamo la Francesca bambina prima sul set del celebre “Le Avventure di Pinocchio” diretto dal padre, poi via via diventare grande, smarrirsi e ritrovarsi. È un continuo “errare” e incespicare insieme.

A interpretare questa complessa dinamica genitore-figlia sono due attori eccellenti, Fabrizio Gifuni e Romana Maggiora Vergano, che in una tenzone fatta di parole, sguardi e silenzi, riescono a restituire tutta l’umanità dei due protagonisti.

Francesca Comencini (C), Fabrizio Gifuni, Romana Maggiora Vergano (R). ANSA/FABIO FRUSTACI

Il film, però, non è solo questo. La storia ambisce all’universalità e dà largo spazio a temi condivisi, come la difficile ricerca della propria identità e della propria vocazione. In più, la storia privata s’interseca costantemente con la macro-storia, offrendoci uno spaccato dello spaesamento nazionale e generazionale in quegli anni.

Eppure, nonostante l’intensità delle vicende narrate, ci è sembrato che il vero grande protagonista dell’opera sia il cinema stesso: quello muto degli albori, quello degli anni Trenta, quello delicato e popolare del Comencini padre. È quasi una sorta di doveroso atto di ringraziamento della regista verso un mondo che emoziona, sconvolge e conquista, fino a diventare persino un mezzo potentissimo di redenzione.

Per tutte queste ragioni, si tratta di un ottimo film. È autobiografico, ma sa parlare a tutti. È crudo, ma sa essere anche onirico e sognante, grazie anche a una fotografia nitida e a un montaggio calzante.

In più, proprio come tutte le opere di qualità, si dà il compito di lasciare un messaggio, che lo spettatore accorto può portare con sé nella tasca della giacca, insieme al biglietto conservato come ricordo.

La ricerca di una vocazione spesso equivale a scarpinare una montagna.

Può essere necessario cadere, fallire e rialzarsi, per mille volte e, appunto, per tutto il tempo che ci vuole.

 

 

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