IL RICONGIUNGIMENTO DEI CONIUGI NEL LETTO NUZIALE

di Gabriele Colella

 L’unica Eroide a non esser stata menzionata negli interventi precedenti è quella di Laodamia al suo Protesilao (her. 13).  Laodamia è l’unica, tra le coniuges della raccolta ovidiana delle Heroides, a prefigurare il ritorno dell’uomo amato nel letto nuziale:

Quando erit, ut lecto mecum bene iunctus in uno
militiae referas splendida facta tuae? (her. 13, 117-118)

Lasciato trasparire, a partire dal v. 102, il dolore determinato dall’assenza del marito, fatto riferimento ai suoi disorientanti mendaces somnos (v. 107), Laodamia si chiede quando potrà finalmente stringere a sé il marito di ritorno dalla guerra. I versi in questione non possono avere collocazione più adeguata nello sviluppo dell’epistola: solo tornare a stringere tra le braccia Protesilao, darà la possibilità a Laodamia di abbandonare definitivamente le immagini ingannevoli che segue di notte e di porre fine ai suoi tormenti. La donna invoca il ritorno del marito nel loro letto matrimoniale, dove potrà finalmente giacere con lui e ascoltare le sue storie di guerra.

Risulta interessante il confronto con her. 6, vv. 95-96:

Hanc potes amplecti thalamoque relictus in uno
impavidus somno nocte silente frui?

Anche nella sesta epistola la scrivente, similmente a Laodamia, non si trattiene dall’immaginare il suo uomo che, spossato, si concede il riposo sul giaciglio. Ma, attenzione: in ogni pensiero di Ipsipile che vede Giasone protagonista, si insinua prepotentemente lo spettro della rivale Medea. Così, non appena la mente della coniunx viene attraversata dalla fugace immagine del suo uomo disteso sul giaciglio, ecco che Medea si materializza accanto a lui, pronta a sostituirsi a sua moglie. Gli scarti rispetto all’epistola tredicesima non si esauriscono qui. Primariamente, consideriamo il lessico adoperato: nel caso della sesta epistola, la scena del congiungimento di Giasone e Medea è immaginata svolgersi nel talamo nuziale (in uno thalamo); in her. 13, invece, l’amplesso dei due coniugi si consuma, nell’immaginazione della protagonista, nel letto (In uno lecto). Che il termine meno specifico (thalamus, per l’appunto) a cui ricorre Ipsipile traduca il suo disperato, quasi patetico, tentativo di illudersi dell’inconsistenza del tradimento del marito? Che l’utilizzo di thalamus in luogo di un più puntuale lectus aiuti la coniunx che scrive a patir meno all’dea del proprio marito solo con Medea in una camera da letto piuttosto che in uno stesso letto? Lasciate che mi dichiari a favore di questa ipotesi. Ma, continuiamo ad evidenziare le differenze tra her. 13, 117-118 e her. 6, 95-96: Giasone e Protesilao non seguono affatto lo stesso copione, nelle fantasticherie delle rispettive mogli.  Cerchiamo di spiegarci: da un lato Ipsipile, (come già in vv. 19-20), immagina il marito disteso nello stesso letto con Medea, rigenerato dal sonno ristoratore che segue la fatica sessuale, come frui, dall’evidente sfumatura erotica, lascia evincere (her. 6, 96 somno nocte silente frui?); dall’altro, Laodamia prefigura lei e il marito presi, a letto, da una animata e coinvolgente conversazione (her. 13, 118 militiae referas splendida facta tuae?). È possibile che Ipsipile alluda, immaginando Giasone e Medea rapiti dall’amplesso amoroso, all’impossibilità di dialogo tra i due, come impedito dalla pochezza di contenuti della rivale barbara. Laodamia e Protesilao, invece, com’è tipico delle coppie felicemente sposate e riunite dopo molta attesa, si concedono il confronto. A tal proposito, non è inopportuno segnalarvi che il topos del combattente che, di ritorno dallo scontro armato, riferisce alla moglie le sue gesta gloriose, prende forma già nella prima Eroide, quella di Penelope a Ulisse (v. 30 e ss. Narrantis coniunx pendet ab ore viri.).

Torniamo al confronto tra la sesta e la tredicesima eroide. La lettura sinottica di her. 6, 95-96 e di her. 13, 117-118 sembra in effetti condurci, al di là dello smascheramento della diversità, anche all’individuazione di un aspetto condiviso. In entrambe le epistole, infatti, riecheggia l’idea dell’abbraccio tra l’uomo e la donna. L’immagine è, tuttavia, declinata differentemente: Protesilao è pensato iunctus (her. 13, 117) ovvero ‘stretto’ alla moglie; Giasone invece, può abbracciare Medea (her. 6, 96 potes amplecti). Lo scarto è evidente: Protesilao è unito indissolubilmente alla moglie come iungere (her. 13, v. 117 iunctus), quanto più in diatesi passiva, suggerisce; Ipsipile, d’altro canto, vuole quasi censurare l’immagine dell’amplesso fra il marito e l’amante per mezzo di una perifrasi di eventualità (her. 6, v. 95 potes amplecti). Lo stesso obiettivo, d’altronde, persegue la coniunx quando, nel compilare la lettera, immagina Giasone in compagnia di Medea e ricorre a verbi come narratur (her. 6, v. 19) e diceris (her. 6, v. 132). Inoltre, sembra che iunctus di her. 13 si contrapponga sistematicamente a relictus di her. 6, v. 95: mentre Protesilao con il suo essere iunctus a Laodamia è ancorato a un porto sicuro e saldo, che è sua moglie; Giasone invece con Medea e senza Ipsipile è relictus, abbandonato, come si addice a chi vuoto ha lasciato il letto nuziale e sola la moglie.

 

 

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