IL REALISMO FIABESCO DELLA NARRAZIONE PARTIGIANA DI ADA GOBETTI E DI ITALO CALVINO

di Trifone Gargano

Il paradigma antifascista di una Costituzione nata dalla e nella Resistenza, oggi, è sottoposto ad attacchi concentrici, e rischia concretamente di essere travolto nel vortice della più generale crisi del sistema dei partiti politici. Occorre, quindi, ripartire dalle radici letterarie, riconoscibili al fondo dei dibattiti e dei discorsi che portarono alla Costituzione, per ritrovare le ragioni di senso di un rinnovato patto sociale, storico, etico, politico e culturale, dell’intera comunità nazionale. La letteratura, dunque, come prisma, come crogiuolo di valori, di passioni e di sentimenti, capace di svolgere ancora la duplice funzione di ammonimento e di antidoto, rispetto al processo di delegittimazione in atto. La letteratura, con il suo magico potere di far emergere i conflitti, le crisi, le dinamiche interiori, le sensibilità, i diversi atteggiamenti, e i diversi linguaggi dell’agire quotidiano (dall’anti-retorica, alla violenza, dall’epopea, alla miseria, dalla tragedia, alla testimonianza, dall’eccezionalità, alla lacerazione, dal realismo più crudo, alla fiaba, fino al non-dicibile…).

Ada Gobetti (1902-1968), nata Prospero, moglie di Piero Gobetti, che si spense a Parigi, a causa delle aggressioni e dei ripetuti pestaggi fascisti subiti a Torino, tra le prime vittime del regime mussoliniano, restò punto di riferimento degli ambienti anti-fascisti piemontesi (e nazionali), prendendo parte attiva alle iniziative del gruppo «Giustizia e Libertà», e alla stessa fondazione del Partito d’Azione clandestino. Ada, che si era dedicata all’insegnamento e agli studi pedagogici, sempre in prima fila per le battaglie in difesa dei diritti sociali e per l’emancipazione femminile, dopo l’8 settembre 1943, partecipò alla lotta armata partigiana, con il figlio Paolo, allora appena diciottenne, nato il 28 dicembre del 1925 (esattamente 100 anni fa), poche settimane prima della morte del padre, avvenuta il 15 febbraio del 1926, in esilio, in un ospedale parigino. Ada Gobetti coordinò alcune brigate partigiane, e fece la staffetta partigiana. Nel 1943, Ada fu tra le fondatrici dei «Gruppi di Difesa della Donna» (GDD), formazioni partigiane pluripartitiche. Dopo la Liberazione, nel 1946, fu la prima donna a occupare la carica di vice-sindaco a Torino, dedicandosi in modo particolare all’istruzione e all’assistenza. Ada si era laureata in filosofia, nel 1925, con una tesi sul pedagogista americano John Dewey (1859-1952). Negli anni Cinquanta, Ada Gobetti collaborò con diversi giornali e periodici («L’Unità», «Paese sera», e altri), entrando in contatto anche con Gianni Rodari. Proprio sul periodico per ragazzi il «Pioniere», diretto da Dina Rinaldi e da Gianni Rodari, Ada pubblicò le sue prime «fiabe» partigiane. Nel 1956, pubblicò Diario partigiano, ed entrò nel PCI. Nel 1961, con suo figlio Paolo e con Norberto Bobbio, fondò il «Centro Studi Piero Gobetti».

Il libro Partigiani sulla frontiera, inserito in una collana per ragazzi, uscì nel 1954, per le Edizioni ANPI, offriva già la cifra della sua scrittura fiabesca, come modo narrativo per accostare i più piccoli alla narrazione, e alla conservazione della memoria, della lotta partigiana. Nel suo Diario partigiano si leggono le seguenti riflessioni, come motivazione alla lotta:

Capivo, pur confusamente, che s’iniziava per noi un periodo grave e difficile, in cui avremmo dovuto agire e lottare senza pietà e senza tregua, assumendo responsabilità, affrontando pericoli d’ogni sorta. Tutto questo personalmente non mi spaventava; il mio ideale di bambina, di adolescente – e in fondo in fondo, ahimè, anche di persona adulta – non era stato forse «la piccola vedetta lombarda»? Ma tremavo per mio figlio che vedevo lanciato così decisamente verso l’azione.

Il Diario partigiano fu scritto due anni dopo la liberazione, rielaborando e traducendo suoi appunti giornalieri annotati in un inglese cifrato (per evitare che, cadendo in una rappresaglia nazi-fascista, finisse in mani sbagliate). Il Diario dà testimonianza della sua adesione alla lotta armata, dal 10 settembre del 1943, al 28 aprile del 1945, svolta in Val di Susa, dove militava pure il figlio Paolo, una zona strategicamente importante, per le comunicazioni con la Francia. Nelle pagine del Diario emerge con chiarezza l’apporto dato dalle donne alla lotta armata partigiana, non confinata nel solo ruolo, pur delicato, della staffetta. Donne di ogni età e condizione sociale, coinvolte anche attraverso inziali compiti quotidiani, come, per esempio, «far calze e indumenti per i partigiani». Ada, in quanto madre combattente, sente la pena per i pericoli che suo figlio Paolo affronta e corre tutti i giorni, in montagna. Sotto questo profilo umano, di madre, alcuni passaggi contenuti nel Diario, e rivolti ai giovani tedeschi, ai nemici, che però, ai suoi occhi di madre, sono anch’essi figli di altre madri, assumono una dimensione etica di altissimo valore e profilo:

Andammo a mangiare in una trattoria. Anche là c’eran dei tedeschi: dei bei ragazzi biondi, allegri. Spogliati dalle divise, dai simboli odiati, in che cosa eran diversi dai nostri? Pensai che se ci fosse stato uno di loro al posto del giovane Davide, avrei provato la stessa ribellione e la stessa pena. Ricordai le parole d’una semplice vecchietta di Meana, che aveva un figlio in Africa durante la guerra. – Prego per lui e prego per tutti. Per tutti. Anche per gli altri.

Parole strazianti e commoventi, come quelle nelle quali, appunto, Ada rievoca Piero, e la sua idea dei «volontari della morte», nel nome di un sacrificio e di un destino più alti:

II saggio di Piero su Matteotti non finiva forse dicendo: «La generazione che noi dobbiamo creare è proprio questa: dei volontari della morte per ridare al proletariato la liberta perduta»? E questi «volontari della morte» non eran forse i ragazzi che combattevano su quei monti la loro disperata battaglia? E non c’era una superiore, logica giustizia nel fatto che in questa generazione ch’egli aveva, con l’opera e con l’esempio, voluto creare, ci fosse, animato dal medesimo spirito, anche il figlio suo?

La lotta armata, nelle pagine del libro Partigiani sulla frontiera, viene rielaborata da Ada in tono fiabesco, come un’avventura per ragazzi. Ecco, questa precisa destinazione editoriale non va dimenticata, libro per ragazzi, come invece è stato fatto, frettolosamente e superficialmente, da parte di chi ha pensato di condannare l’operazione culturale di Ada Gobetti, per via della presenza di alcune sottolineature didascaliche, forse, eccessive. In Ada Gobetti, deve aver agito, come lettura e come modello letterario, sulla scelta del modo narrativo fiabesco, il Calvino scrittore partigiano. Anche Italo Calvino (1923-1985) aveva preso parte attiva alla lotta armata partigiana, e anche lui, per primo, ne aveva fornito un resoconto narrativo, appunto, fiabesco. Si pensi al racconto partigiano Ultimo viene il corvo, pubblicato per la prima volta il 5 gennaio 1947, su «L’Unità», e che, poi, nel 1949, diede il titolo all’intera raccolta einaudiana (in prima edizione, 30 racconti scritti tra il 1945 e il 1949). Sempre del 1947 era il primo romanzo di Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, uscito presso Einaudi, ancora una storia di ambientazione partigiana, e ancora una narrazione con l’adozione di un punto di vista fantastico, quello degli occhi del bambino Pin. Calvino deve aver agito, indubitabilmente, come modello, per la narrazione della lotta partigiana intesa e narrata come una fiaba di bosco (tanto per riecheggiare, in questa mia espressione, le parole con le quali Cesare Pavese accoglieva l’uscita di quel libro di Calvino, definendolo, con una formula divenuta celeberrima, «scoiattolo della penna»). Italo Calvino, come pure Ada Gobetti, la resistenza, in montagna, l’avevano fatta per davvero, in prima persona. Avevano corso, entrambi, i pericoli e gli affanni di quella lotta, che, dopo, ciascuno dei due, s’ingegnava a raccontare in tono fiabesco. Sia Italo Calvino, che Ada Gobetti, avevano frequentato il liceo classico, avevano seguito, cioè, un percorso di studi e di formazione che li aveva portati, come tanti altri autori della Resistenza, a rintracciare nei classici latini e greci (e, poi, in quelli italiani, Dante e Machiavelli soprattutto), i modelli di riferimento (letterari ed etici). Alludo a ciò che amo definire, in una ricerca che sto svolgendo, le «radici letterarie» dei nostri autori della Resistenza e, anche, dei nostri Padri Costituenti. Tanto le fiabe di Italo Calvino, quanto quelle di Ada Gobetti, se mi fosse permesso, andrebbero, quindi, viste come esempi di letteratura «extra giurisdizionale», extra canone, di sovvertimento di tutte le regole di genere, pur mantenendo, entrambi, i piedi ben piantati in terra. Esattamente come accade, in sede storico-giuridica, con il concetto di luoghi «non giurisdizionali», per definire il sovvertimento delle norme della vita comunitaria ordinaria, nel momento in cui un territorio, un paese, una città, veniva conquistata e governata dai partigiani. Proprio l’esperienza estrema della lotta partigiana, con il suo sovvertimento d’ogni regola, consente, dunque, analogamente, l’eversione dei modi narrativi tradizionali, e l’adozione, da parte di Calvino e di Gobetti, del modo fiabesco, per raccontare un’esperienza crudissima e violenta, quale fu, appunto, la guerra civile, nella quale anche la singola e minuta “vittoria” locale, da parte di una delle due formazioni combattenti, portava con sé, quasi corredo obbligatorio, un forte senso di dolore, e di frustrazione. Tutto ciò, in altri momenti e in altri contesti avrebbe ben dovuto prevedere il registro del realismo, e non quello della fiaba.

Ada Gobetti, da Si sentì più alto

Senza che nessuno gli badasse il ragazzo attraversò il paese in tutta la sua lunghezza, attaccò la salita dall’altra parte, verso «Giuliano». Camminava da circa un’ora, quando sentì un fruscio nel bosco vicino e, voltandosi, vide spuntare la grossa faccia abbronzata di Nino, il fratello maggiore di Berto.

– Ti manda Berto? – chiese: e: – l’hai portato? – aggiunse subito al cenno affermativo del ragazzo.
– Sì, – rispose Renzo, fermandosi a riprendere fiato.
– Bravo. Allora vieni con me.
Attraverso il bosco e il letto di un torrente semiasciutto, lo condusse in una radura dov’eran radunati i partigiani con tutti i giovani della borgata; c’era anche il loro capo, un giovane alto, dai modi un po’ bruschi, che i compagni chiamavano «Lupo». Nino gli parlò brevemente sottovoce.

Italo calvino, da Ultimo viene il corvo

A ogni sparo il soldato guardava il corvo: cadeva? No, l’uccello nero girava sempre più basso sopra di lui. Possibile che il ragazzo non lo vedesse? Forse il corvo non esisteva, era una sua allucinazione. Forse chi sta per morire vede passare tutti gli uccelli: quando vede il corvo vuol dire che è l’ora. Pure, bisognava avvertire il ragazzo che continuava a sparare alle pigne. Allora il soldato si alzò in piedi e indicando l’uccello nero col dito, – Là c’è il corvo! – gridò, nella sua lingua. Il proiettile lo prese giusto in mezzo a un’aquila ad ali spiegate che aveva ricamata sulla giubba.

Il corvo s’abbassava lentamente, a giri.

immagini tratte dal web

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