IL NEOREALISMO E LA COMMEDIA SORDIANA

di Ermanno Testa

La cinematografia italiana, sostenuta dal regime fascista che ne comprende le forti potenzialità ai fini della propaganda e del consenso popolare, rappresenta già dagli anni trenta un importante fattore di acculturazione di massa. Quel cinema, nell’ispirarsi a retoriche belliche e nazionalistiche o a tematiche rosa di ambientazione piccolo borghese, secondo lo stile dei cosiddetti ‘telefoni bianchi’, in coerenza con il clima di ottimismo propagandato dal regime, sembra appagare il grande pubblico. È sostanzialmente in concomitanza con il cambiamento dei sentimenti e delle condizioni di vita della popolazione, fiaccata dalla guerra e dai suoi esiti disastrosi, che nel cinema italiano, dagli anni quaranta in poi, nasce e si afferma una nuova corrente cosiddetta del Neorealismo. Si fa risalire al 1943, con “Ossessione” di Visconti, l’origine di tale nuova corrente. Essa non si configura come scuola – non vi è all’origine alcun manifesto programmatico – ma si afferma attraverso un processo culturale, non privo di venature ideologiche, in cui si ritrovano autori con sensibilità e stili anche molto diversi, interessati tuttavia a un tema comune: il Paese Italia, rappresentato, mai come prima di allora, attraverso il cinema, nelle sue pieghe più riposte.

 

Dal punto di vista culturale il Neorealismo si rifà al verismo letterario (La terra trema di Visconti non è che la trasposizione de I Malavoglia) e a quella narrativa italiana che già dagli anni trenta, sottraendosi alla retorica del regime, mostra attenzione a molti aspetti anche nuovi della realtà sociale del Paese. Non secondaria inoltre è l’influenza culturale di quel cinema d’oltralpe che accompagna in Francia nel 1936 la vittoria elettorale del Fronte popolare da cui conseguono per la prima volta importanti conquiste sociali come la settimana lavorativa di 40 ore e le ferie pagate: futuri esponenti del Neorealismo (Luchino Visconti, Michelangelo Antonioni) lavorano come aiuto registi con alcuni autorevoli autori francesi (Jean Renoir, Marcel Carné).

Il Neorealismo segna una decisa svolta nella storia del cinema italiano facendone una espressione culturale di grande impatto civile e politico, con trame ambientate in luoghi di normale vita quotidiana, fra classi disagiate e lavoratrici, sui temi più scottanti del momento descritti in termini realistici, al punto da consentire (e forse richiedere) in molti film la partecipazione di attori non professionisti: tutto ciò in netto contrasto con le narrazioni artefatte, retoriche e sofisticate, tipiche del passato regime. La qualità artistica di molti film del Neorealismo contribuisce non poco ad elevare le sorti del cinema italiano, facendone una delle cinematografie più seguite e apprezzate anche all’estero, come dimostrano i ripetuti riconoscimenti ottenuti nelle più prestigiose rassegne internazionali; del resto, alcuni suoi esponenti, registi e sceneggiatori, figurano tra i maggiori protagonisti tout court dell’arte e della cultura italiana del tempo. Tra i primi rappresentanti, oltre al citato Luchino Visconti, spiccano i nomi di Roberto Rossellini, Giuseppe De Santis, Vittorio De Sica, Pietro Germi, Luigi Zampa, Alessandro Blasetti, Renato Castellani, Cesare Zavattini, Sergio Amidei; successivamente quelli di Carlo Lizzani, Luigi Comencini, Francesco Rosi, Antonio Pietrangeli, Luciano Emmer, Francesco Maselli e, sia pure in posizioni a sé stanti, Federico Fellini e Michelangelo Antonioni, interprete, il primo, di un realismo onirico e della memoria, il secondo, caposcuola dell’esistenzialismo interiore.

Il Neorealismo accompagna il periodo più tragico della storia d’Italia, quello della guerra e dell’immediato dopoguerra, ne riflette il degrado sociale e morale. Tuttavia, nel descrivere la povertà, la disperazione, la frustrazione diffuse nel Paese in quegli anni difficili, ne rivela anche le attese, le speranze, il desiderio di riscatto e di cambiamento. Ed è anche grazie al grande successo di pubblico che il cinema neorealista riesce a svolgere un’importante funzione culturale di massa: quella di dare consapevolezza, superata la retorica del regime, delle gravi condizioni dell’Italia e nel contempo di sviluppare, insieme alla denuncia delle condizioni sociali anche più umili, una qualche idea di riscatto oltre che di resistenza di fronte ai disastri e alle difficoltà causati dal fascismo e dalla guerra, e insieme di accompagnamento del grande sforzo di ricostruzione, morale e materiale, del Paese. Una funzione, per dirla in termini gramsciani, di intellettuale collettivo, organico allo sforzo di riscatto sociale e civile del popolo italiano in un momento particolarmente delicato e difficile della breve storia unitaria dell’Italia. Ben presto però, alla fine degli anni quaranta, avviatosi il processo di ricostruzione, un fenomeno artistico e culturale così autorevole diventa una presenza assai ingombrante nel nuovo corso della politica italiana: la denuncia sociale (e politica) contenuta nella produzione filmica neorealista suscita nei suoi confronti la crescente ostilità sia delle autorità religiose, sia del governo. La chiesa cattolica ne condanna l’anticlericalismo nonché i modi, giudicati immorali, di affrontare argomenti come famiglia, amore, sesso, donne e bambini, spesso protagonisti delle storie narrate. Quanto al governo, a guida democristiana dopo l’estromissione, nel 1947, dei partiti della sinistra principali protagonisti nella guerra di Liberazione, e l’adesione al Patto Atlantico, nel 1949, con l’inizio della “guerra fredda”, esso avvia all’interno del Paese una politica di forte contrapposizione verso i partiti della sinistra, ostacolando ogni manifestazione culturale che possa suonare, direttamente o indirettamente, come ostile al governo stesso. L’immagine di un Paese povero e desolato quale traspare dai film neorealisti infastidisce non poco la classe politica governativa che arriva ad accusare tali opere di offrire all’estero un’immagine negativa dell’Italia. In tale quadro politico matura un grave atto di censura ai danni del cinema italiano: alla fine del 1949 viene emanata una legge (L. 958), presentata dall’allora sottosegretario allo spettacolo, Giulio Andreotti, giovane rampante della DC e uomo fidato del Vaticano, ufficialmente volta a sostenere e promuovere il nostro cinema di fronte all’avanzata dei film americani, attraverso il finanziamento pubblico delle opere prodotte in Italia; tale legge contiene però anche una disposizione assai grave: secondo la quale ogni film, per ricevere il finanziamento, deve essere sottoposto al giudizio di una commissione di nomina governativa. All’esame della commissione non va però la pellicola ultimata bensì la sceneggiatura del film, per cui il giudizio che decide o meno del finanziamento riguarda non la qualità artistica dell’opera finita bensì il suo copione, cioè il suo contenuto di idee: è su queste di fatto che si esercita l’azione censoria della commissione. Con la stessa legge viene anche negata la licenza di esportazione a quei film che possano “diffamare l’Italia”. In sostanza, nel Paese che rinasce a fatica dalle macerie della guerra e del fascismo dove la Costituzione, appena approvata, afferma il diritto di tutti “…di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” e che “l’arte e la scienza sono libere…” (artt. 21 e 33), viene introdotto un sistema di censura preventiva non diverso da quello del passato regime con in più il comma, su pressione del mondo cattolico, che sancisce il divieto degli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. Una censura peraltro che, per la modalità con cui viene esercitata, può facilmente sottrarsi al confronto critico a livello di opinione pubblica: infatti ci si può mobilitare e si può manifestare pubblicamente in nome della libertà di espressione per tentare di sottrarre alla censura un’opera di valore artistico e culturale; ma se il film non c’è perché con la censura preventiva ne è stata di fatto impedita la produzione, neanche sulla base della denuncia dei ‘potenziali’ autori del film, per quanto autorevoli, c’è qualche possibilità di dar vita ad una azione pubblica di protesta a difesa di un’opera non realizzata. Non sapremo mai quanti siano stati i film non realizzati a causa di tale legge. E neanche quanti tagli, revisioni, modifiche rispetto alla sceneggiatura iniziale, siano state imposte agli autori, o da loro stessi anticipate, snaturandone l’originario valore artistico e culturale, in cambio del sostegno finanziario del governo alla produzione del film. Così, senza particolare clamore, il potere politico mortifica l’esuberanza creativa di un cinema che attraverso una spesso severa rappresentazione della realtà italiana con opere di avanguardia è riuscito ad essere per una grande platea di pubblico un importante fattore di maturazione civile. In apparenza il cambiamento non ha effetti repentini. Il talento e il mestiere di molti autori continuano a manifestarsi nel tempo; certi stili non vengono meno, molti temi sociali continuano a riapparire, ma ciò che prima è stato racconto severo capace di indurre il pubblico a riflettere; racconto civile per una società desiderosa di migliorare la propria condizione, sociale, culturale, esistenziale; contributo critico attraverso una corposa rappresentazione della realtà tale da poterlo collocare nel solco di quel complesso dibattito pubblico che, ora esplicito, ora sotterraneo, ha accompagnato tutta la storia dell’Italia unita, insomma un fenomeno artistico e culturale di grande impatto educativo, ora tende a spettacolarizzarsi con sempre più espliciti fini commerciali. In sostanza ciò che accade è la fine di una particolare, felice alleanza, nel rispetto della diversità dei ruoli, tra politica e cultura (in questo caso cinematografica, di largo impatto sociale), un’alleanza che in tante fasi storiche passate, non solo in Italia, ha prodotto significativi processi di sviluppo e di crescita delle popolazioni coinvolte. Ogni volta che tale connubio viene meno, la politica vede restringersi progressivamente la sua visione di futuro riducendosi a una funzione prevalente di conservazione del potere. E, in corrispondenza, la cultura vede ridursi la sua prospettiva ideale, etica e sociale, per concentrarsi sull’autoreferenzialità e sull’autocompiacimento, sviluppando in campo artistico scelte manieristiche e autocelebrative. Quella legge del 1949 sanziona, appunto, tale rottura; con evidenti effetti sulla produzione cinematografica e, di conseguenza, sulla tenuta di quell’ampio dibattito pubblico sulle condizioni dell’Italia (solo nel 2021 la censura cinematografica verrà abolita con un decreto del ministro Franceschini).

Progressivamente nei film, nel lento declino delle idee forti, al dramma si sostituisce la commedia; le storie di uomini e di donne diventano rappresentazioni di personaggi; e gli attori protagonisti, quei pochi che ripetutamente li interpretano (Gassman, Tognazzi, Manfredi, Sordi, Vitti, Mastroianni), diventano, anche grazie alla loro bravura, i principali fattori di successo dei film. È la Commedia all’italiana, un po’ surreale, un po’ caciarona, che non tralascia di affrontare situazioni drammatiche e di manifestare profondi risvolti critici verso i tanti vizi della società italiana, ma sempre più condizionata dall’esigenza di rappresentare tutto ciò magari con piglio caricaturale, macchiettistico, in chiave agro-dolce e a volte finanche con bonarietà. Capace altresì, anche con queste chiavi, di realizzare ogni tanto prodotti di altissimo livello, in grado di segnare la storia del cinema, ma non più di rivitalizzare, in una società ormai appagata dal consumismo, un vero dibattito pubblico.

Anche nei film più impegnati – a voler tacere della presenza incalzante di un cinema modaiolo con poche idee, o volutamente senza idee, mirante a un godimento melenso e superficiale – il dramma collettivo è sempre più circoscritto al personaggio/attore la cui notorietà insieme a qualche situazione comica, possa garantire all’opera il successo di un pubblico sempre meno esigente. In tale contesto i rari film di alto contenuto civile (Scola, Taviani, Risi) sono di fatto condannati alla marginalità. E in generale il cinema, riducendosi il suo impatto culturale, etico, politico sulla società italiana, torna ad essere uno dei vari generi narrativi offerti dal mercato, con prevalente funzione di svago. Muta, è mutato, di conseguenza, il gusto del pubblico, causa ed effetto insieme del degrado, meno esigente culturalmente e ormai abituato a un facile appagamento. Estremo ed emblematico è il caso di Alberto Sordi le cui commedie, grazie alla rappresentazione satirica del cosiddetto italiano tipico, egotico, sbruffone, pavido, qualunquista, meschino, un po’ vigliacco, pur fustigando ridendo certi costumi degli italiani (“siamo tutti Alberto Sordi”), ne fanno con il tempo l’icona di un ‘carattere italiano’ quasi genetico, immutabile; il corrispettivo di un Paese conformista, che non vuole o non riesce a cambiare e, al dunque, da accettare com’è. Una maschera per ridere (?) dei propri vizi e fare delle proprie debolezze virtù, e magari autoassolversi. Senza pensare troppo.

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