Non avrei mai immaginato che il nostro Santo Protettore ovvero San Nicola sia stato associato nel XVII secolo ad un potente veleno che uccise molte centinaia di uomini. Di tanto in tanto quando ho un po’ di tempo a disposizione mi piace consultare vecchi libri o manoscritti che ho acquistato o mi sono stati donati che custodisco nella mia biblioteca personale. Sfogliando un libro ingiallito di farmacologia risalente alla fine dell’ottocento alla voce arsenico corrispondeva un eponimo virgolettato, definito “Acqua ntofanina” Chiaramente mi ha incuriosito e dopo una ricerca nel Web ho raccolto questa storia interessante
L’acqua Tofana o acqua tofanina è un miscuglio velenoso composto da anidride arseniosa, limatura di piombo e antimonio (o belladonna) veniva preparato mediante bollitura per circa un’ora in una pignatta ben sigillata; dopo il raffreddamento, il liquido veniva travasato in piccole bottigliette. Non sono note le quantità degli ingredienti utilizzati, ma l’efficacia del prodotto era garantita: incolore, insapore, privo di odore, erano sufficienti poche gocce negli alimenti e nelle bevande quotidiane per provocare una morte senza grosse sofferenze e senza sintomi. Il miscuglio velenoso, difficile da identificare poiché inodore e incolore, ha cominciato a circolare nella Palermo del XVII per mezzo di una certa Thofania d’Adamo, nata e vissuta in un quartiere tra i più poveri e malfamati della città, appartenente ad una rete di streghe, avvelenatrici e fattucchiere che agivano nella Sicilia del Seicento. A lei , infatti si attribuì l’invenzione del potente veleno, poi denominato indebitamente anche manna di San Nicola, perché veniva imbottigliato in boccette decorate con l’immagine del santo e venduto come tale.
Quando Thofanina D’Adamo venne giustiziata, poiché accusata della morte del marito, la tradizione fu portata avanti dalla figlia (o una nipote) di nome Giulia che, secondo alcune fonti conosceva la pozione, poiché l’aveva spesso aiutata nella preparazione di sostanze di dubbio impiego. Giulia crebbe bellissima, poverissima, senza alcuna istruzione, con un carattere assai spregiudicato e in possesso di “un’arte” che ella trasformò in quello che in termini moderni si definisce business, cambiando radicalmente in pochi anni la propria vita.
In quel tempo le donne non erano nemmeno soggetti di diritto e spesso si trovavano ingabbiate in matrimoni con uomini non scelti da loro, talvolta violenti, ai quali la legge assicurava la piena potestà sulle mogli. In assenza di norme che consentivano lo scioglimento del matrimonio l’uso del veleno a scopi criminali era tutt’altro che raro, specie nel mondo femminile, e questo dato trova conferma nell’elevato numero di condanne a morte per omicidio «cum veneno propinato» come scrisse Leonardo Sciascia nell’introduzione a uno studio intitolato I veleni di Palermo, riferito al periodo 1160-1815.
Dopo la morte di Thofania, Giulia fiutò l’affare e, complice la sua relazione con uno speziale, riuscì a garantirsi l’approvvigionamento degli ingredienti necessari per la produzione, si potrebbe dire quasi su scala industriale, di un veleno evidentemente molto richiesto e per i motivi più disparati: questioni ereditarie o di affari, tradimenti, o la volontà di numerose donne di liberarsi di compagni violenti.
Chi ingurgitava la potente mistura sembrava inizialmente essere affetto da una banale sindrome influenzale, che però piano piano uccideva in una decina di giorni, mantenendo il malcapitato con un colorito roseo fino al momento della morte .
Pare che il prezzo di una bottiglietta da mezzo quarto fosse di cento doppie d’oro e fu così che Giulia divenne in poco tempo molto ricca.
Dopo circa una decina d’anni di attività, due incidenti posero fine alla carriera di Giulia. Una sua cliente, la contessa di Ceri, evidentemente troppo ansiosa di liberarsi del marito e ignorando le prescrizioni, gli aveva somministrato tutto il flacone in un’unica soluzione causandone naturalmente la morte istantanea, come era già avvenuto al genovese Lercari.
Alla denuncia dei parenti della vittima si aggiunse anche quella di un marito sopravvissuto ad un tentato avvelenamento e ben presto le autorità arrestarono la responsabile. Non bisogna dimenticare che in quel periodo il Tribunale dell’Inquisizione faceva la parte del leone nei processi a imputati/e in odore di stregoneria e sospettati/e di pratiche occulte e anche Giulia finì nella stanza delle torture dove confessò di aver venduto, nella sola Roma, dosi di veleno sufficienti a uccidere circa seicento uomini tra il 1633 e il 1651.
A questo punto, però, le versioni sulla sorte di Tofana sono discordi: la maggior parte di esse sostiene la tesi che Giulia fu impiccata in Campo de’ Fiori nel 1659, nello stesso luogo dove era stato mandato al rogo Giordano Bruno. La medesima sorte sarebbe toccata a Girolama e a numerose donne giudicate colpevoli di aver avvelenato i mariti.
Secondo un’altra tesi Giulia sarebbe riuscita a far perdere le sue tracce dopo essere stata processata e assolta grazie all’intervento autorevole del suo amante, padre Girolamo. La tesi difensiva era basata sull’assunto che il prodotto incriminato era efficace per la cura della pelle ed era stato messo in commercio con quello scopo; la produttrice non poteva essere responsabile di usi diversi e non opportuni dello stesso.
La produzione dell’acqua tofana non cessò dopo la morte di colei che la rese famosa e il suo uso è stato attribuito, tra le altre, alla marchesa de Brinvilliers, nobildonna francese che tra il 1666 e il 1676 ne sperimentò l’efficacia uccidendo numerose persone tra cui il padre e due suoi fratelli mentre, di lì a poco, sarebbe scoppiato nella Francia di Re Sole il cosiddetto affare dei veleni, la cui protagonista principale fu “La Voisin”.