IL DESERTO DEI TARTARI E LA FORTEZZA DELLA MENTE

Renata La Serra

“Nominato ufficiale, Giovanni Drogo partì una mattina di settembre dalla città per raggiungere la fortezza Bastiani, sua prima destinazione.’’
Da buon cronista, con questo semplice esordio esplicativo, Dino Buzzati conduce il lettore nell’anacronistico non-luogo della Fortezza Bastiani, scenario arso e desolato, ma terra fertile per quello che si sarebbe rivelato, niente po’po’di meno, il suo capolavoro.

Dino Buzzati

‘’Il deserto dei Tartari’’ è attualmente annoverato, dall’esegesi italiana e mondiale, tra i migliori romanzi del Novecento. Ciò nonostante, Buzzati è collocabile tra i tanti artisti di spessore a cui è capitata una sorte piuttosto infausta …. per l’arco di tutta la sua vita.
Il valore dei suoi scritti gli è stato infatti riconosciuto appieno soltanto post-mortem e, per ironia della sorte, l’affascinante materia letteraria racchiusa nell’opera si allinea trasversalmente a quella che si sarebbe rivelata la trama di vita dell’autore stesso.
Dopo essersi formato come giornalista, ancora in fieri, il giovanissimo Buzzati inizia la stesura dei suoi primi romanzi per consegnare alla stampa ‘’Il deserto dei Tartari’’ a soli trentatré anni.
Corre l’anno 1940. Da una parte i suoi colleghi giornalisti invecchiano nell’attesa di un qualche cambiamento, mentre il loro rigido mestiere li isola dietro i confini di una scrivania; dall’altra l’avvento di una guerra terribile mette in discussione il senso del mestiere di ufficiali inviati al presidio di fortezze ignote.
Saturo degli stimoli esterni lo scrittore decide, così, di tessere una storia di attesa che non ha gambe per incedere verso il raggiungimento del tanto agognato obbiettivo.
Il desiderio si scontra col terrore. Poi, si radica nell’abitudine.

Giovanni Drogo, le cui origini restano sconosciute, trasferitosi nella fortezza Bastiani, decide di restarci nella speranza che, prima o poi, si compia la sua battaglia da combattere.
Ne sarebbe seguita una gloria riconoscente; una gloria tanto grande da restituire un significato alla sua vita.
Ma la fortezza, paradossalmente confinata nello spazio immenso di un deserto spoglio e decrepito, è simbolo del nulla e della vacuità dell’esistenza umana.
I presagi di guerra restano probabilità, allucinazioni, sogni sfumati sullo sfondo delle montagne limitrofe.
Drogo è solo. Sentinella in guardia. Vittima della ripetitività delle azioni. Subalterno di un destino che lo schiaccia, senza che nessun evento gli piombi addosso. Drogo è incompiuto. Inerme. Anestetizzato. Così, sino alla fine dei suoi giorni.
L’unica battaglia della sua vita la combatterà nientemeno che sul punto di morte.
A letto, con le luci e le ombre della fortezza a filtrare dalla finestra rigandogli il volto ormai scarno e pallido, totalmente privo della vigorosa fanciullezza di un tempo.
Ma quanto è durata? Forse poco, poco e niente.
O forse tanto, tanto quanto il tempo di un’attesa.
In ogni caso poco importa, come oramai poco importa dei Tartari, fatidici nemici da Drogo così tanto bramati e vagheggiati per il tempo di una vita, una sola, non diversa da molte altre.

scena tratta dal film “Il deserto dei Tartari”

Atmosfere cupe, oniriche, febbricitanti, evocano il mistero che si cela dietro l’apparente normalità delle cose.
La Fortezza Bastiani diventa scenario plumbeo di uno spazio vuoto, sfoltito della dilagante frenesia urbana che l’autore invece ci propina in ‘’Un amore’’, il cui protagonista, l’architetto Antonio Dorigo, è ostaggio di un senso di incompiutezza a cui fanno da cornice le spigolose geografie di una Milano scialba, dai comignoli grigiastri e l’atmosfera impertinente.
Per legge del contrappasso, attorno alla Fortezza vige il silenzio.
Nulla accade: le giornate si trascinano scambiandosi, mischiandosi e scivolando in una dinoccolata danza informe; ritmata, forse, soltanto dal susseguirsi delle stagioni. Forse, perché probabilmente neanche le peculiarità delle stagioni riescono ad insinuarsi tra le sue mura immacolate.
Fuori la vita scorre, svelta e tracotante, noncurante delle dinamiche desertiche che l’autore racconta con una penna decisa e originale, in linea con un certo realismo magico e riconducibile, poi, alla corrente sperimentalista di Eco e della Maraini.
La visionaria scrittura di Buzzati suggestiona infatti i sensi, descrivendo con moderato lirismo immagini e suoni onomatopeici di Borgesiana memoria.
Così, nel flusso del tempo universale, ‘’Il deserto dei Tartari’’ fissa il Kronos nel Kosmos dilatando con la narrazione ogni sfaccettatura della vita del protagonista, per poi accompagnarlo verso l’epilogo della sua stessa esperienza esistenziale.
Dietro la mediocrità del protagonista, però, alberga la contemporaneità di un messaggio ancora attuale.
Giovanni Drogo è simbolo di un isolamento mentale comune in quella che Spinoza definirebbe ‘’l’epoca delle passioni tristi.’’
Lo ‘’status quo’’ è riconducibile ad una questione culturale: assistiamo, nella civiltà occidentale contemporanea, al passaggio da una fiducia smisurata ad una diffidenza estrema nei confronti del futuro.
Nel ventunesimo secolo i Tartari sono quei nemici invisibili ben abbarbicati nel tessuto sociale, serpeggianti nella fortezza della nostra mente.
Trattasi di mancanza di prospettiva, dell’impostazione performante delle nostre giornate, del progresso che non sempre va a pari passo con l’emancipazione.
Trattasi di tutte quelle sirene ammaliatrici che, lampeggiando, ci traggono in inganno distogliendoci da un percorso di crescita.
Il deserto, non-luogo per eccellenza, è una situazione mentale di stallo.
E’ l’alienarsi da una realtà che, causa sovraffollamento, porta all’isolamento.
Proprio come accade a Drogo, ci si domanda cosa davvero conti, cosa sia essenziale nel delirio di avvenimenti che restano fermi a se stessi. Privi di qualsivoglia processo evolutivo.
E ancora, specularmente alle vicissitudini del protagonista, l’anti-eroe moderno patisce la sua posizione di incomunicabilità. Quest’ultima è spartiacque tra il suo mondo, la sua fortezza, i suoi nemici (che, in egual misura dei tartari, mai si palesano ma sempre permangono) e ciò che si staglia dirimpetto alla sua vista, tanto vicino quanto distante dal suo sentire.

Questo il dramma dell’uomo contemporaneo ; questo il peso che il romantico tenente (nel senso letterario del termine) prova a spostare come fa Sisifo con il suo abnorme macigno rotolante, specchio della condizione umana e del confronto tra l’uomo e il mondo, tra il mondo e l’uomo.
Eppure, ci ricorda Camus nella sua reinterpretazione del mito, ‘’Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice’.
Ed è proprio questo che manca alla poetica parassitaria del nostro Drogo. Lo slancio vitale che sopravviva alla disarmante attesa del ‘’qualcosa’’, restituendo un senso al ‘’nel frattempo’’.

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