IL CINEMA LIQUIDO – LE PELLICOLE SULLA VIA DELLA SETA

di Renata La Serra

Sin dalla notte dei tempi l’uomo ha guardato a quella che è l’esistenza, ponendosi domande e cercando risposte circa il principio di tutte le cose.
Agli arbori della filosofia i naturalisti erano affascinati dallo scorrere dei ruscelli e il mito restituiva alle infinite maree un dio o una divinità a cui attribuirne l’imprevedibilità. Secondo Aristotele il principio primo di tutte le cose era l’acqua, mentre Eraclito esprimeva, nel suo “Trattato sulla natura”, un concetto riassumibile nel “Phanta Rei”, tutto scorre, chiave di lettura della filosofia del divenire.
Non è stato mai difficile, dunque, pensare alla vita in una forma liquida, acquatica: il flusso di un fiume che sorre sino a sfociare in un lago, nel mare o in un altro corso d’acqua rigenerandosi sempre e senza ripetersi mai, in continua trasformazione all’interno di un ciclo che trascina con sé il tempo e le stagioni, la vita e la morte, le intemperie e la quiete della primissima rugiada che imperla i petali e le foglie delle ninfee.
Nel corso della storia l’acqua è diventata una dimensione altra, talvolta purificatrice, talvolta mietitrice di vittime. Si è vista incarnare da affascinanti creature leggendarie, evocare dai più grandi cantori, poeti e artisti.
Poi: l’evoluzione, la ricerca, il settecento, l’età del progresso, l’elettricità, le grandi invenzioni, il Cinema.
Mentre nel primo novecento Einstein affermava che la luce fosse la sola costante dell’Universo, l’acqua entrava nella scena cinematografica già dai lavori dei Lumière di fine ottocento, in quanto elemento dinamico che duplica il movimento delle immagini ed elemento impalpabile dall’occhio umano che invece il “cineocchio”, come direbbe Vertov, restituisce con totale naturalezza.

Il canale con le chiuse e le chiatte naviganti, il porto, il mare e la sua frontiera con la terra, il faro come valore luminoso, sono elementi ancora oggi impregnati della poetica della scuola francese, come sottolinea il filosofo francese Gilles Deleuze ne “L’immagine-movimento”.
L’esperienza cinetica della pellicola ha imparato sapientemente ad “abbassarsi” a fior d’acqua e l’estetica della liquidità nel cinema ha, nel tempo, parallelamente percorso la via della seta arrivando oltreoceano decostruendo, così, strutture statiche proprie di un hollywoodiano cinema di posa.

Anche i registi orientali, da sempre peculiari nell’approccio teatrale e cinematografico, dall’esordio dei piani bassi Ozu e del suo fatidico sguardo fisso nelle inquadrature hanno trasversalmente accostato al mezzo di traslazione della barca con cui attraversare i meandri delle lande esotiche, il mezzo di espressione della cinepresa, capace invece di mostrarci tramite il flusso dell’acqua la fluidità della vita in continuo divenire restituendoci, di essa, una percezione ancor più che umana, quasi esterna ai solidi, una percezione molecolare chiaroveggente e sublime.
È proprio il maestro giapponese Ozu, infatti, a parlare di ottave musicali in fatto di film, dichiarando che ogni regista padroneggi la sua ottava, capace di elargire più o meno drammaticità ai lavori, e definendo la sua ottava bassa.
Il concetto dell’ottava in fatto di film si ricollega all’importanza anche sonora dell’acqua finalizzata alla ricerca di un’adeguata componente ritmica.
L’acqua, non a caso, è spesso il fil-rouge che lega l’estetica del cinema orientale, connettendo la forza purificatrice-e distruttrice del suo elemento all’aria, alla terra e al fuoco. Esattamente come accade in due perle del regista sudcoreano Kim Ki-Duk, “L’isola” e “Primavera, estate, autunno, inverno…e ancora Primavera”.

L’isola di Kim Ki-Duk

Il cinquantanovenne Kim Ki-Duk, (vincitore in carriera del Leone d’oro e del L’eone d’argento al festival di Venezia e del premio Un Certain Regard al Festival di Cannes) vanta una vasta filmografia in fatto di numero e contenuto.
Nonostante abbia fin dall’indice della sua produzione costruito un cinema rarefatto e votato alla violenza, di cui l’exploit avviene con gli ultimi ‘’Pietà’’ e ‘’Moebius’’, si è dedicato trasversalmente alla produzione quasi artigianale nell’approccio di pellicole come “L’isola” (di cui sono comunque riconoscibili i suoi tratti caratterizzanti) e il più inedito ‘’Primavera…’’, la cui narrazione si dispiega in semplici passaggi di tempo.

’Primavera, estate, autunno, inverno…e ancora Primavera’ di KIm Ki-Duk

La trama di quest’ultimo si scioglie, infatti, sullo sfondo di un monastero buddhista galleggiante su un lago in mezzo alle montagne, proprio come accadeva in “The Isle”, dove gli abitanti di un proprio eremo sperduto in lande abbandonate vivevano in piccole casette cullate dai moti dell’acqua che erano raggiungibili solo attraverso la navigazione della giovane Hee-Jin.
Quest’ultima, considerata il Caronte asiatico, era avvolta Da un’aura sovrumana volta a renderla un astratto liquido, una creatura magica, surreale, dalla sottile perfidia che è appannaggio dei più. L’aiutante e l’antagonista di un’affascinante e ipnotica fiaba noir.
In “Primavera…”, invece, un bambino cresce apprendendo, passo passo, le tradizioni di un monaco, suo mentore.
Sulla scia delle stagioni, trascinate sulle rotaie del tempo (o forse spinte dai remi di una fragile barchetta di legno levigato), vicende sature di saggezza, cattiveria ed innocenza catturano lo spettatore nella piccola dimensione immersa dei due, accompagnandolo nella sua circolarità degli eventi.
Cinque sono i capitoli che scandiscono il film: ad ognuno di essi corrisponde una stagione. Ogni stagione è caratterizzata da un evento a sfondo esistenziale proprio del percorso i crescita del ragazzo, percorso che al raggiungimento dei trent’anni lo porterà ad abbandonare il monastero, per poi tornarvici ormai maturo.
Gli insegnamenti del monaco, ormai troppo vecchio e le lezioni dell’uomo, a sua volta troppo maturo, ritroveranno il loro spazio nella ciclicità dell’esistenza:
I germogli del primo inverno sbocciano ancora, la stagione della fioritura sui monti tappeti rosati; tra letti di petali, prati d’acqua e lievi slanci gassosi la storia si ripete: un bambino ascolta le parole di un monaco, seduto sul ciglio di un monastero, con i piedi a penzoloni nel vuoto che sfiorano appena la superficie del lago.
 

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