IL CINEMA DI PROSA E DI POESIA

di Renata La Serra

Agli inizi del Novecento il cinema diventava sempre più caratterizzato dallo sguardo dell’epoca corrente, parallelamente alle altre espressioni artistiche, tra cui la letteratura. Con “Roma città aperta” di Rossellini, dalle rovine dell’Italia bombardata nasceva il Neorealismo, che con la sua sorprendente semplicità, schiettezza di contenuto e profondità di campo, viaggiava oltralpe.

Ma è in Italia che, con autori dissacranti come Pier Paolo Pasolini, avvenne il miracolo. Pasolini regista sviluppa una sua personale ed intima coscienza poetica sublimatasi in una dimensione tanto sacra quanto profana. La sua ricerca letteraria si è alternata, da sempre, a quella cinematografica mettendo alla luce il suo cinema di poesia, svincolato dai formalismi neorealisti. Ne possiamo ammirare ad esempio lo stile già nel suo esordio cinematografico con Accattone: suonano solenni (per la prima volta nella storia del cinema) le note di Bach sui primi piani, e la camera per poco non sfiora il volto di Accattone come faceva Dreyer durante l’interpretazione da brividi della Falconetti nel processo a Giovanna d’Arco.

“Giovanna d’Arco” di Dreyer

La fotografia, fascinosamente grezza, lascia filtrare spiragli di luce e lirismo alla Bunuel; gli elementi della ballata trovano spazio tra i moti di disperazione dell’umanità suburbana e gli slanci profondamente emozionali sollecitati da metafore per immagini. Poi ancora Accattone che gozzoviglia per la città. Quell’impolverata parvenza di fede veicolata dalle figure umane nitide e calcate per creare contrasto. La morte al culmine dell’epos. Questi gli elementi chiave in cui frugare per parafrasare i versi liberi della poetica pasoliniana. Di qui il motivo per cui l’artista si presta ad una vera e propria lettura filmica che prescinde dal corpus della sua vastissima produzione letteraria ed anche dai suoi numerosi adattamenti cinematografici estratti da opere letterarie di spicco quali Medea, Edipo re, Il fiore delle Mille e una notte.

Alla coscienza poetica di Pasolini va accostata la coscienza etica del francese Éric Rohmer, la cui esigenza era quella di raccontare.

“Accattone”, di Pier Paolo Pasolini

La letteratura ha avuto un forte impatto sulla sua crescita artistica tanto da portare l’autore a vivere con entrambi il format cinematografico e quello letterario un rapporto di incessante alternanza. Di qui l’indecisione del regista, la perenne scissione del suo io egemone e la tendenza ad attingere da elementi letterari per la resa dei suoi film, oltre che ad attuare una doppia realizzazione delle sue opere ed inscenare importanti trasposizioni di testi letterari. Egli stesso era solito domandarsi:‘’Porquoi filmer une histoire, quand on peut l’écrire? Pourquoi l’écrire quand on va la filmer?’’ ‘’Perché filmare una storia che si potrebbe scrivere e scrivere una storia che si potrebbe filmare?’’

Non a caso, infatti, lo stile rohmeriano è fortemente caratterizzato dal verbum presente in fitti dialoghi, profonde ma piacevoli riflessioni e vagheggiamenti esposti sotto forma di pensieri fluttuanti ed evanescenti: il tutto vitalizzato dall’apparente leggerezza e semplicità scenica che sfoltisce il contenuto prolisso del linguaggio filmico del regista, che forse trova il suo compromesso esistenziale soltanto non dissociandosi dal Rohmer scrittore. Svariati sono i casi in cui la parola prende il sopravvento per trainare il pensiero dei protagonisti, addirittura precedendo gli stessi, che si vedono pressoché costretti a subire le loro stesse parole diventando impossibilitati all’azione. Emblema ne è la sua produzione del ciclo commedie e proverbi di cui, il terzo episodio dei sei, ‘’Pauline à la plage’, viene riassunto dalla dalla frase ‘’Chi parla troppo reca danno a se stesso’’, come a voler giustificare la dialettica concitata dei suoi personaggi che, a differenza dei Sei personaggi in cerca d’autore pirandelliani, probabilmente se potessero chiederebbero a Romher di lasciargli il tempo di respirare tra una battuta e l’altra. Il ciclo di commedie e proverbi, di fatto ispirato al teatro, caratterizza ogni episodio con una citazione.

L’autore giunge a un punto comune sia al cinema che alla letteratura proprio attraverso escamotages sui generis come questo, dedicandosi con piacere all’accurata suddivisione dei suoi ventitré film per la maggior parte in cicli narrativi. Ispirandosi alla letteratura Rohmer scrive e riprende i suoi ‘’Six conteux moreaux’’, la cui espressione non allude a questioni inerenti il moralismo in quanto con moraliste si intende colui che è interessato alla descrizione delle sensazioni, dei sentimenti e degli stati mentali che si scatenano all’interno dell’essere umano. (Geniale è la trovata del finale di ‘’Les nuits de la pleine lune’’, in cui la ‘’colpa’’ di tutti i guai viene riversata sulla luna piena, e la follia che ne deriva.) Nei ‘’Sei racconti morali’’, sviluppando l’idea registica sulla base della struttura di un lavoro letterario, l’autore pone i racconti su piani diversi facendo in modo che siano accomunati da un topos. Tra questi possiamo evidenziare una doppia rappresentazione dello spazio urbano che trova tensione scenica da una parte nell’evidenziare la giornata dei personaggi spesso composta da momenti uguali e monotoni e dall’altra nel pulsante d’emergenza della fantasia, a cui i protagonisti ricorrono attraverso pensieri di fuga che applicano alla negazione della routine. A questa si sottraggono mentalmente incarnandosi potenzialmente nel topos del flaneur che rifiuta le normali vicende quotidiane per condurre una vita da giovane bohèmienne.

Lo scenario più adatto al disfacimento della trama è quasi sempre quello urbano, come accade ne ‘’L’amour l’après-midi’’ in cui Parigi si fa palcoscenico di possibili scenari amorosi agli occhi di Frédèric, che conduce un’esistenza animata dalla forza del pensiero che potenzia in treno durante le sue letture, in un primo momento osservando con la coda dell’occhio le giovani passanti e immaginando di condividere anche solo un momento della sua esistenza con loro, come a possederle e lasciarsi possedere per un po’, nella presa di un abbraccio simbolico che avrebbe abbandonato la sua mente non appena il treno avrebbe preso ad aumentare di velocità e a superare di gran lunga la portata dei pedoni. Così, nel giro di qualche istante, Fréderic si ritrova a rimpiangere di non poter vivere altre vite oltre la propria sola ed unica esistenza, dispiacendosi di tutte le sue possibilità irrealizzate.

’L’amour l’après-midi’’ , di Rhomer

Quando il protagonista varca la soglia del mondo esterno, semplicemente al di fuori del proprio appartamento o nel non-luogo del mezzo di traslazione, viene pervaso dal desiderio di un’altra vita, desiderio che si incarna nell’incontro con Chloé, figura riesumata dalla nebbia del passato. La dinamica ciclica e la caratterizzazione dei personaggi è simile all’episodio del ciclo di Antoine Doinel, ‘’L’amore fugge’’, di Truffaut. Che si tratti della città o di un luogo di villeggiatura, sovente il luogo diventa funzionale per lo svolgersi della storia. (Ne ‘’Le genou de Claire’’ i tre luoghi menzionati rappresentano rispettivamente tre tempi della vita del personaggio in questione: il luogo della memoria, il passato recente e il luogo del desiderio). In questo spazio urbano, rurale o marittimo da comporre e scomporre su misura delle personalità rohmeriane, tutt’altro che off-topic è la componente dell’incontro. I protagonisti vivono una svolta al momento dell’incontro: per ognuno di loro un particolare incontro si rivela fondamentale per lo svolgimento della storia. I suoi personaggi sono liberi ma strettamente necessari gli uni per gli altri: si rincorrono tra le strade parigine giocando a nascondino tra i palazzi del tessuto urbano e provano disperatamente a guadagnarsi la loro indipendenza.

Giochi di ruoli, di sentimenti, di interessi dalle regole semplici ed essenziali, e proprio per questo difficili. Ne ‘’La femme de l’aviateur’’ Francois e Lucie scoprono le carte di vicende quotidiane che trasformano la vita in un giallo: I due guardano dall’interno dei cafés parigini gli intrecci delle dinamiche altrui, vi discutono e fanno congetture. Persino il non detto non viene traslato in immagini: è sotteso ‘’tra le righe’’ dei dialoghi. I personaggi si recano ai cafés soli o in compagnia, o magari soli per poi ritrovarsi in compagnia.

Scandite da concerti, saloni e conoscenze fortuite le loro giornate si imbattono in riflessioni e drammi esistenziali sollevati da un apparente ‘’vivere in superficie’’ che li porta a planare dall’alto ma anche a scivolare inesorabilmente sul fondo di una bottiglia di vino già consumata, di una vita corrosa dalla travolgente portata del consumo e dalle velleità; di rapporti che evaporano tra le nebbie dei camini parigini; inseguendo la sottile linea verde all’orizzonte.

’La femme de l’aviateur’’ di Rhomer

L’autore, da abile paroliere, si diverte a lambire con maestria le sfere percettive della memoria, tessendo, come faceva il poeta latino Ovidio nelle sue elegie, veri e propri giochi e virtuosismi letterari a sfondo amoroso. Rohmer veicola i suoi récit attorno alla nevrosi dell’epoca moderna lasciando che i sentimenti predominanti dei suoi film venissero dettagliatamente analizzati dai suoi personaggi stessi mediante un’introspezione figlia del novecento, dell’avvento della psicoanalisi freudiana e del flusso di coscienza di James Joyce nel suo Ulisse. Epoca in cui Rohmer e Pasolini, seppure non sembrassero conoscersi molto, hanno reso la pellicola carta bianca affinché potessero scriverci su le innovative regole di una nuova grammatica filmica dalla brillante prosa e poetica.

 

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