di Giulio Loiacono
Un po’ storia, un po’ fiction, un po’ verosimile, un po’- se non tanta – ricostruzione di fantasia, questo film vuol far incontrare due mondi: se scartavetriamo, ma non molto, la patina di religiosità che anima questa pellicola, lo scopo è quello di far vedere come si è cattolici – e uomini – allo stesso modo.
Apparentemente, non si potrebbe essere più lontani.
Uno, rigoroso ed attento studioso, pianista diletto e di grande talento e sensibilità, solitario ed amante dei gatti d’angora, quasi per predestinazione un eletto proveniente dalla civilissima teutolandia; l’altro, il mondano argentino, l’uomo della fine del mondo e, per sua stessa ammissione, “dalla fine del mondo”, che ama il San Lorenzo de Almagro ed il tango, che gira tante borgate e che, con disinvoltura tutta gesuitica, si lascia sfuggire un bel:”Carajo!”, la nostra imprecazione rivolta al membro, se necessario.
Che cosa ci sarebbe più lontano? Ma cosa c’è di più vicino? la Chiamata.
Che tu sia un algido kantiano bavarese – anche se non dimenticatelo mai, i bavaresi non sono quelli della Plandeutschland – col volto di un vitreo Hopkins o che tu sia un casinaro di Baires con quello più oblungo e assopente di John Pryce, entrambi bravissimi, alla Chiamata non puoi sfuggire.
Non sapremo mai quale fu la ragione vera “del gran rifiuto” a continuare l’officio da parte di Benedetto. Francesco la sa per certo. Se fosse, come si presume nel film, che Benedetto non vedeva più Dio, beh, allora ha fatto bene a non proseguire e Francesco a prenderne il posto per essere testimone di “verità”, ma con amore.
Perché, come si dice nel film e come Benedetto scrisse, non a caso, poco prima di andare via, “Caritas in veritate”, non c’è verità senza amore.
Senza amore anche la realtà è solo squallore ed amarezza profonda.
Da vedere con cuore proiettato verso la catarsi, se si vuole.