di Francesco Monteleone
I tre film precedenti di questo regista britannico (“In Bruges”, “Tre Manifesti a Ebbing, Missouri”, “La coscienza dell’assassino”) mi avevano infatuato; in tutti c’era una narrazione visiva sorprendente, tanti colpi di scena, il soggetto ben pensato, i dialoghi mai scontati.
Il quarto lungometraggio lo aspettavo con trepidazione, ma oggi prendo le rispettose distanze dalla critica istituzionale e mi sento di avvisarvi che rischiate di non trovare quella dimensione leggera capace di deliziarvi in poltrona.
Sui taccuini dei critici più accreditati, all’unanimità, c’è scritto che l’opera è molto divertente, che la sceneggiatura è brillante, che l’interpretazione di Colin Farrell e Brendan Gleeson è addirittura strepitosa, imponente. Così il pubblico si è presentato in massa alla cassa e i premi prestigiosi sono stati aggiudicati.
Quindi fidatevi della loro angolazione e non della mia, perché io pagherei il biglietto d’entrata soltanto a uno che vorrei cadesse nello sconforto.
Su un’isola a nord ovest dell’Irlanda (che non esiste) due inseparabili amici, Colm l’allevatore (Colin Farrell) e Padraic il nullafacente violinista (Brendan Gleeson) litigano nei primi 5 minuti e bruscamente separano le loro vite. Uno dei due dice all’altro che non vuole più vederlo, perché lo considera noioso. Qui inizia e qui finisce il film: una lunga cantilena di tesi e antitesi espresse dai due personaggi per motivare o giustificare le loro sconclusionate azioni autodistruttive.
Sono gli anni ’20, alcune lontane esplosioni dicono che c’è la guerra civile in Gran Bretagna, ma il conflitto tra inglesi e irlandesi non è spiegato né storicizzato, quindi bisognerebbe aver studiato Storia contemporanea all’università per capire la forza metaforica del film.
Qualcuno che cuce i pensieri con un filo più prezioso del nostro dice che la divisione dei due amici, così disgraziatamente irrazionale, corrisponde alla divisione dei due popoli inglese e irlandese. Sarà così, ma questa esaltante analogia intellettuale non ci farà cambiare le sentenze. Un film non dovrebbe ‘stufare’ e dovrebbe sollecitare la voglia di rivederlo.
Nell’isola Inisherin immaginata dal regista c’è un campionario si personaggi con caratteri esagerati, provocatori, nevrastenici; questo rende le situazioni sempre leggermente improbabili o poco coinvolgenti.
Le facce caustiche dei due attori principali fan cornici a un’ abbuffata di luoghi comuni espressi in dialoghi lenti, ripetitivi, irritanti. L’intreccio, tendente al noir, non è mai vivificato da momenti di gradevole suspense; l’unica cosa veramente sorprendente sono le location naturali; se questo film fosse un documentario organizzeremmo i voli charter per trasferirci una quindicina d’anni lì (naturalmente facendo vita separata dagli indigeni).
Dopodiché andate a cinema e se abbiamo sbagliato…meglio per voi.