GIANNI MINÀ E BASTA

di Giulio Loiacono

Non vi parlerò del profeta del: “Eravamo io… “, non vi parlerò dei suoi reportage documentaristici ed apologetici, a metà tra la scuola di Łódź (si legge Uug, con la g di ciliegia, non dimenticatelo, giusto per essere fedeli alle fonti, altra cosa di Minà, anche se lo era alle sue, ma questa è un’altra storia)e la costruzione del mito tipica del cinema sovietico puro, quasi un Majakovskij ancor più folle e lirico. Non vi parlerò del suo-defunto-modo di far televisione, ossia fintamente sciolto, in pullover a V, in vari toni del rosso granato, un omaggio al Torino calcio ed al partito di riferimento. Dei suoi programmi televisivi, in cui lo spettatore vedeva queste poltroncine da ufficio a rotelle allineate su due fronti contrapposti, quasi si fosse in un’atmosfera sospesa tra i cineforum di Sezione di una volta ed un tavolo di confronto rivendicazionista sindacale. Il certe volte sventurato, anche se pur moderatamente interessato, si sorbiva ore ed ore di “ospitate” -si direbbe oggi- in cui si profluviava, apparentemente di tutto, con gamba accavallata di ordinanza e sigaretta e posacenere in bella vista, ma tutto era rivolto in un’unica direzione, ossia l’imminente caduta della società borghese-capitalista. Il tutto annaffiato dai risultati del campionato di calcio in sovraimpressione, concessione del piccolo uomo dei due mondi alle masse più disparate, fossero essi capitàni di industria o più celebri netturbini.

Così, tra una rovesciata di Cantarutti -degna del più celebre e fantasioso Juventus-Catania di banfiana memoria- ed uno sproloquio sul teatro off e sperimentale, relitto sessantottino, la tv di questo strano arruffapopoli-sia detto affettuosamente-con quei capelli sudaticci sempre attaccati alla fronte e quei baffetti alla Costanzo, si snodava curiosa ma efficace, a modo suo, nel descrivere la sua realtà.

Come concessione gradevole alla sua anima di gauche divine, ti infilava un duetto tra Gassmann e Tognazzi, con l’intromissione del salace Vianello, ormai al soldo del perfido Biscione tentatore.

E giù a parlare di aneddotica, di cene e tennis a Tor Vaianica, di bloopers e gaffe da set o da dietro le quinte.

Minà, però, è stato un buon giornalista sportivo. Direttore di Tuttosport, anche se non per molto, è stato molto torinese, se ci pensate anche nel suo approccio algido alle storie. Era analitico e curioso ed ha il merito di far capire-inutilmente-alla massa degli intellettualoidi che lo schifano regolarmente ancor oggi-che lo sport è densissimo di insegnamenti, spunti e dolori e che è, per chi lo sa fare, narrativa straordinaria. Sarebbe vita, come io amo dire, ma per molti rimangono due calci ad una sfera in mutande o chissà cos’altro.

La sua era una mistica, mal riuscita, una teologia della liberazione del mondo attraverso l’epos del miliardario, purché schifante la sua condizione e santificato dal marxismo gettato a piene mani, oppure del misero, non bastava il semplice povero, di tutto, financo di spirito, pronto ad essere redento da un microfono portatogli alla bocca da questo strano omino.

“ Ma vi ho raccontato della volta in cui ho messo ad uno stesso tavolo Bob De Niro, Sergio Leone, Garcia Marquez e Muhammad Alì… ?”.

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