di Trifone Gargano
Il Classico è come un cono gelato multi-gusto: lo giri e lo ri-giri tra le mani, e ne scopri sempre sapori e dolcezze nuove. Ecco, mi sembra azzeccata, per Italo Calvino (1923-1985), questa mia definizione pop del classico; una definizione, cioè, che riesce a dire, grosso modo, la stessa cosa detta da lui, in una delle sue tante, celeberrime, definizioni del classico:
«Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire» [n. 9]
come pure:
«I classici sono libri che […] quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati…» [n. 9]
La mia definizione del classico come gelato multi-gusto, rinvia, in quanto a immagine, al diritto di «spizzicare», collocato da Daniel Pennac all’ottavo posto del suo ideale Decalogo del Lettore.
Le collane dei classici, di fatto, sono nate per formare l’identikit (il selfie) del lettore ideale. Elaborare, diffondere (ma anche imporre) una ben precisa idea di lett-erat-ura. E questo è iniziato, ovviamente, anche molto prima che si giungesse, nel 1861, alla nascita dello Stato italiano (e, quindi, della scuola nazionale, con i suoi programmi). Un primo selfie della lett-erat-ura lo si legge, infatti, nel canto IV dell’Inferno dantesco, con il poeta che colloca sé stesso in una bella istantanea di Autori (e di generi letterari), che devono essere trasmessi come canone classico: Omero, per la poesia epica; Orazio, per la poesia morale; Ovidio, per la poesia mitologica; Lucano, per la poesia storica; Virgilio, (e Dante stesso) per la poesia epica. Dante riprenderà e completerà il selfie con la poesia comica, nel canto XXII del Purgatorio (v. 97 e sgg.). Poi, ci saranno le collane di Aldo Manuzio, con la nascita della stampa; e, soprattutto, quelle dell’Italia «bambina», dopo il 1861, con le proposte di Giosuè Carducci, di Benedetto Croce, e di tanti altri. La definizione di un canone è sempre stata, in tutte le epoche, un’operazione di raffinata (e selettiva) strategia politico-culturale, intimamente collegata con le questioni metodologiche e didattiche della lett-erat-ura:
«I grandi scrittori sono immortali, si dice, e la cosa come al solito è vera solo per le categorie privilegiate. Il fatto è che dopo solo 100 anni essi son già morti per le categorie più umili (appunto gli operai adulti e i ragazzi che non seguiteranno gli studi). Dopo 200 anni son morti anche per i ginnasiali. Dopo 600 anni se si chiamano Dante vivono e stento (con più note che testo) per i figli di papà nei licei»
[don Lorenzo Milani, da E. Affinati, L’uomo del futuro, Mondadori, Milano 2016, p. 142]
Lo scritto teorico di Italo Calvino dal quale intendo partire, in questo mio viaggio all’interno del suo universo fantastico, assaporando la sua opera in prospettiva «multi-gusto», è decisamente il racconto Sapore Sapere (apparso, dapprima, sulla rivista «FMR», il primo giugno 1982, con questo titolo; e, poi, ripubblicato, per volontà di Calvino, con il titolo Sotto il sole giaguaro).
In esso si legge che la lingua avverte quattro sapori: dolce, salato, amaro, acido. Per il resto, interviene l’olfatto, che suggerisce e che guida il viaggio geo-culturale alla ricerca delle origini del gusto.
In Marcovaldo (progetto narrativo che risale al 1952, uscito per la prima volta in volume nel 1963, per Einaudi) molte sono le avventure che riguardano il cibo, e lo strano rapporto che con esso ha Marcovaldo, il manovale protagonista di tutti questi racconti, ingenuo, malinconico, sfortunato, ma anche molto sensibile a cogliere tutti i segnali della natura all’interno della città di cemento nella quale vive, e quello della sua stramba famigliola.
Già nel primo racconto, Funghi in città, Marcovaldo, mentre aspetta il tram, scorge dei funghi nella minuscola aiuola del corso cittadino. Quando sarà il momento, Marcovaldo, con i figli, li raccoglierà, contendendoseli con lo spazzino Amadagi, per ritrovarsi, poi, in serata, tutti quanti, in corsia d’ospedale, per sospetto avvelenamento da funghi.
Nella terza avventura, Il piccione comunale, Marcovaldo, che ha adocchiato uno stormo di beccacce, si ritroverà a consumare un misero piccione (rimasto impigliato nella colla che egli ha messo sul terrazzo condominiale), che gli resterà, però, sullo stomaco, per diverse ragioni. Al rito della pausa pranzo è dedicato il settimo racconto, La pietanziera, con esito, anche qui, tragicomico (Marcovaldo consuma cibo freddo, e avanzato da giorni e giorni). L’undicesimo racconto, Il coniglio velenoso, narra di Marcovaldo che ruba un coniglio in ospedale, senza sapere che si tratta di un coniglio cavia, e quindi contaminato da virus; lo tiene all’ingrasso, vagheggiando di farne, di lì a poco, un saporoso intingolo. Anche in questo caso, però, Marcovaldo, in compagnia della sua sfortunata famigliola, si ritroverà in ospedale (per sottoporsi a una serie di vaccini). Nel tredicesimo racconto, Dov’è più azzurro il fiume, Marcovaldo, alla ricerca di pesce sano e non avvelenato, scambia le acque inquinate di un fiume per azzurre acque di un laghetto di montagna, con il risultato che le tinche pescate, in quelle acque così azzurre perché inquinate dagli scarichi di una industria di vernici, finiranno per essere ributtate in acqua, lasciando, ancora una volta, tutti a bocca asciutta.
Nella Trilogia degli antenati, ciclo di romanzi dal registro fantastico e allegorico, sui tic e sulle manie dell’uomo contemporaneo, sviluppato tra il 1952 e il 1959, composto da Il visconte dimezzato (1952), Il barone rampante (1957), e Il cavaliere inesistente (1959), la prima ribellione del barone rampante, Cosimo Piovasco di Rondò, inizia proprio a tavola. La descrizione del pasto, nel primo capitolo, è esilarante, ma anche precisa, puntuale, ineccepibile, accurata. Sarà il piatto di lumache a scatenare, nel barone, la ribellione (piatto preparato dalla sadica Battista, che, tra gli altri suoi manicaretti, si vanta di eccellere nella preparazione dei crostini di paté di fegato di topo; in quella della torta alle zampe di cavalletta; in quella dei codini di porco arrostiti; e in altre simili prelibatezze). È a tavola, dunque, che Cosimo conquista l’autonomia e l’identità, nel risoluto scontro che egli sosterrà, fino a diventare adulto: «Ho detto che non voglio e non voglio!».
Nel Visconte dimezzato, il perfido Medardo di Terralba, tornato, appunto, dimezzato dalla guerra, per colpa di una cannonata turca, sarà proprio con un paniere di funghi, anch’essi dimezzati e velenosissimi, che manifesterà tutta la sua insaziabile malvagità, nei confronti del mondo intero, proponendoli all’ignaro nipote.
Le cose si complicano nel Cavaliere inesistente, dal momento che uno che non esiste, com’è, appunto, Agilulfo, in teoria, non dovrebbe mangiare per nulla: «non aveva né mai avrebbe avuto appetito». Agilulfo chiede, però, che gli servano sempre di tutto, e che tutto sia ben pulito e ben affilato, dai bicchieri ai piatti, dai coltelli alle forchette, affettando e intingendo nelle salse la carne, senza consumare, ovviamente, nulla. Con meticoloso impegno, Agilulfo, travasa bicchieri di vino, da un calice all’altro; sminuzza molliche di pane, senza mai sporcare o far cadere briciole; affetta linguette di carne. Senza mangiare nulla. Egli rispetta fino alla pedanteria più estrema e snervante l’etichetta e le buone maniere da tenere a tavola, dando vita a un vero e proprio rito conviviale, di cui egli è il sommo sacerdote.
Nel 1983 uscì Palomar, una sorta di Marcovaldo filosofeggiante, analogamente smarrito, come il manovale di vent’anni prima, dinanzi ai confusi segni del presente, anche se Palomar appare, agli occhi del lettore, decisamente, meno sfortunato di Marcovaldo. Pacato, tranquillo, riflessivo, ma, analogamente, in gran difficoltà dinanzi al mondo circostante. La pagina più nota, di questo romanzo, dal mio punto di vista di osservazione e di lettura, è quella del negozio / museo di formaggi, nel quale Palomar entra: «Dietro ogni formaggio c’è un pascolo d’un diverso verde sotto un diverso cielo».
Il signor Palomar fa la coda in un negozio di formaggi, a Parigi. Vuole comprare certi formaggini di capra che si conservano sott’olio in piccoli recipienti trasparenti, conditi con varie spezie ed erbe […].
La formaggeria si presenta a Palomar come un’enciclopedia a un autodidatta; potrebbe memorizzare tutti i nomi, tentare una classificazione a seconda delle forme — a saponetta, a cilindro, a cupola, a palla -, a seconda della consistenza — secco, burroso, cremoso, venoso, compatto -, a seconda dei materiali estranei coinvolti nella crosta o nella pasta — uva passa, pepe, noci, sesamo, erbe, muffe – […].
Questo negozio è un museo: il signor Palomar visitandolo sente, come al Louvre, dietro ogni oggetto esposto la presenza della civiltà che gli ha dato forma e che da esso prende forma. Questo negozio è un dizionario; la lingua è il sistema dei formaggi nel suo insieme […].
Stessa cosa accade dal macellaio, dove Palomar va per acquistare tre bistecche, e dove, invece, si renderà conto che la macelleria è un tempio, nel quale «placare il rimorso per l’uccisione d’altre vite al fine di nutrire la propria».
Nel Castello dei destini incrociati (1969, edizione Franco Maria Ricci), Calvino racconta, attraverso le carte dei tarocchi, un labirinto di storie (sul modello delle Mille e una notte), mettendo in scena la queste dei cavalieri medievali. In questo universo popolato da cavalieri e da dame, da re e da eremiti, a mensa, però, nessuno, ma proprio nessuno, proferisce parola.
I tarocchi del Castello richiamano mnemonicamente, per ammissione dello stesso Calvino, i tarocchi miniati per i duchi di Milano, intorno alla metà del XV secolo. Nel 1973, da Einaudi, Calvino pubblicò Il castello dei destini incrociati associandogli anche il testo de La taverna dei destini incrociati, costruito con lo stesso metodo narrativo, mediante, cioè, l’utilizzo di un mazzo di tarocchi popolari, marsigliesi, con suggestioni narrative nuove, rispetto al Castello, e ai tarocchi viscontei. I tarocchi, dunque, come macchina narrativa combinatoria. Anche nel testo della Taverna, comunque, la mensa è muta:
«…la mia voce non la sento, non mi esce la voce dalla gola, non ho voce, non sento nemmeno la voce degli altri, si sentono i rumori, non sono mica sordo, sento acciottolare le scodelle, stappare i fiaschi, tambureggiare coi cucchiai, masticare, ruttare, faccio dei gesti per dire che ho perduto la parola, anche gli altri stanno facendo gli stessi gesti, sono muti, abbiamo perso la parola tutti…»
La felicità è un tratto del carattere. È nella natura di alcune persone aspettarla sempre, di altre cercarla incessantemente, di altre ancora trovarla ovunque.